Memorie di un cacciatore

Dalla culla ai 90: tutta caccia

Il noviziato

Ho avuto la fortuna di nascere in un paese delle Prealpi lombarde, tra laghetti e paludi, pianure, colline e monti, in un ambiente che pareva creato per gli amanti dell’acqua, dei boschi, dei prati, delle abetaie e delle pietraie. Un paese che si trova sulla sponda di un lago, alle falde del massiccio montano del Campo dei Fiori. Nato in un palazzo antico, dotato di un immenso parco dove trovavano posto un canile capace di ospitare dieci cani, una voliera gigante con all’interno un grosso faggio, che dava l’illusione e la possibilità agli uccelli di vivere come in libertà, un orto con ogni varietà di prodotti per la cucina, un frutteto ricco di ogni tipo di pianta da frutta e un giardino con fiori e alberi do ogni tipo; questo parco ha avuto il merito di insegnarmi a conoscere e ad amare il mondo vegetale in ogni momento del suo sviluppo stagionale.

Il mio lago!
Il mio lago distava trecento metri dal palazzo; sulla riva, vicino ad un canale che portava verso il largo, c’era una darsena, una grande costruzione che poteva contenere dieci barche, e sul cui frontespizio troneggiava una grande lastra di granito che arrivava a cinque metri sopra il livello delle acque; su questa lastra erano presenti, dalla parte che si affacciava sul lago, i livelli scolpiti delle varie piene che avevano interessato il lago nel corso degli anni. L’aveva acquistata mio padre dal nobile Maggioni, che l’aveva a sua volta ereditata dal marchese Litta, allora proprietario delle acque del lago. All’interno della darsena c’era quella che io chiamavo “la mia flotta”: il sandalino ad un remo a due pale per le scorribande estive di fronte al lido, ma usato anche nelle giornate caratterizzate da forti temporali, quando le rive erano deserte (anche dai guardia pesca...), per gettare in acqua palline di polenta miscelata con bacche di coccolo pestate in un mortaio, vera droga per i pesci, che, ingoiandole, rimanevano storditi per almeno una mezzora, durante la quale nuotavano pigramente a pelo d’acqua. Li inseguivo con il veloce sandalino e li prendevo, in grandi quantità, con un capiente retino. Un bracconaggio giovanile, reato da tempo estinto per “decorrenza termini”; c’era poi il vecchio barchetto da pesca che si faceva avanzare remando in piedi sulla poppa, con la prua che si alzava di circa mezzo metro sopra il livello dell’acqua, cosa che consentiva di penetrare nei canneti che per chilometri bordavano le rive e che serviva anche come appostamento fisso ovunque, perché le alte canneggiole lo nascondevano ai selvatici in volo e in planata sul gioco di stampi; poi c’era la barca padronale, che avevo battezzato Callipigia per la sua poppa tondeggiante e per un gioco di pazzia goliardica; infine c’era il barchetto con la spingarda, il mio gioiello per la caccia ai becchi piatti, in antagonismo con le altre sei spingarde sempre in lotta fra loro per arrivare per primi a tiro alle anatre posate.

La spingarda
Rivivo i momenti frenetici che si susseguivano quando iniziava l’emozionante avvicinamento ai branchi di anatre posate sulle acque del lago. L’accostamento lo effettuavo sdraiato supino sul fondo del barchetto, con il viso rivolto alla punta e gli occhi incollati al mirino presente alla base del lungo cannone, le gambe e i piedi sulle pedivelle per azionare le palette che davano forza propulsiva sott’acqua, in modo da non provocare onde che avrebbero insospettito i selvatici, con l’automatico usato per ribattere gli uccelli feriti disteso a fianco al corpo; occhi sul mirino e dito sul grilletto della spingarda per sparare al momento giusto, il tuono della potente cannonata che squarcia la quiete del lago, la visione del risultato buono o cattivo del tiro. Emozioni forti, frenesie intense che solo lo spingardista ha assaporato.

Un posto da favola
Il paese sulle rive di un ampio lago, dove sono tuttora presenti vestigia di antiche palafitte, un fiume ai suoi confini, una pianura ubertosa, con vigneti e colture varie ai piedi di un grande massiccio montano che arrivava ai mille metri s.l.m. appagavano il cacciatore e soddisfacevano qualsiasi esigenza venatoria. La selvaggina stanziale, lepre in testa, era abbondante e la migratoria silvana e palustre nelle vicine paludi della Brabbia e del laghetto alimentavano qualsiasi tipo di caccia. Lungo le sponde del fiume Bardello, emissario del lago, i rallidi, per la maggior parte gallinelle d’acqua e porciglioni, facevano impazzire i cani, insieme ai palmipedi feriti che si rifugiavano nello sporco delle sponde dopo le sparatorie effettuate sul lago. Sul fondo sabbioso del fiume si pescavano con il guadino a maglia fine le uselline (i cobiti, Cobitis taenia) le esche preferite dai persici reali insidiati con la tecnica della tirlindana. Nei giorni di grande passo e ripasso le paludi di Bardello e della Brabbia venivano scosse da coppiole e da scariche di automatici, mentre i cinofili non davano tregua al re dell’acquitrino, il beccaccino. Ad esso facevano da corona palmipedi, trampolieri e rallidi. Barchetti, tese, appostamenti erano sempre occupati dall’alba al tramonto e in alcune giornate anche di notte.

Una grande varietà di animali
Sovrastavano il paese le colline della Motta d’Oro, del Careg e del Caldé, insidiate dai boschi di robinie, che preparano un sottobosco pulito e vermicoloso, che sembra fatto apposta per invitare la beccaccia alla sosta diurna. Verso il lago Maggiore si estendeva una pianura opulenta di coltivazioni, principalmente frumento e granturco, inframmezzate da vigne e prati; ricordo i branchi di starne, un tempo numerose, che razzolavano alla ricerca di cibo. Nella piana echeggiava sopra tutto il richiamo delle quaglie che attendevano di deporre le uova nel nido; canti che, appena nati i piccoli, si accompagnavano ai trilli delle allodole di passo e stanziali. Le lepri, ovunque presenti nei boschi e nei coltivi, vivevano nell’angoscia dell’apparizione del loro terribile nemico, il segugio, il cane più allevato nella zona. Su per le acciottolate, ripide stradette che dai Caldé vanno su verso il forte di Orino, la canea correva lungo le vallate più in fretta delle gambe dei segugisti che si affannavano per arrivare prima della lepre al crocicchio letale. All’altezza del Forte (situato a circa mille metri s.l.m.) che strapiomba in Valcuvia, costruito dai soldati durante la prima guerra mondiale nel timore che gli austriaci passassero dalla Svizzera per attaccare l’Italia, si contavano ogni anno dai tre ai quattro branchi di coturnici. Vivevano tra la cime del Forte e la punta delle Tre Croci, prima che un intenso rimboschimento di pini togliesse alle regine delle rocce l’habitat indispensabile per vivere. Cesene, tordi, merli e tutti i migratori minori sceglievano per il loro percorso migratorio la corrente che passava per il paese, dove abbondavano roccoli, capanni e appostamenti fissi.
Non v’era che la scelta del selvatico e di come cacciarlo.

Una conoscenza capillare
Del mio lago, della mia terra, fin dai tempi della fanciullezza e prima che avessi un fucile fra le mani, conoscevo ogni anfratto e ogni zolla, così come conoscevo ogni rifugio preferito dalle lepri e ogni nascondiglio delle starne, dal momento che queste e quelle si riproducevano sempre negli stessi luoghi. Così come conoscevo gli specchi preferiti dalle marzaiole, dai germani e dalle folaghe e mi era noto ogni fazzoletto di palude ove il beccaccino era sempre in pastura.
Amavo il mio paese quasi carnalmente, l’amavo per i suoi colori, verde pallido in primavera, scuro in autunno e grigio e bianco d’inverno e per il suo volto sempre nuovo e pur sempre uguale. Era la terra del grano, dei bei campi sempre curati, erano le acque delle ninfee gialle e bianche, dei canneti folti e impenetrabili.
In quei luoghi aveva inizio la mia avventura che doveva durare per tanti anni, con un noviziato consumato in ogni genere di caccia: cominciava quando ancora era notte, nelle tese, poi nei fossi, nelle pianure e nei boschi. Insettivori e granivori con le panie vaganti e la civetta, poi allodole, merli, tordi e storni nelle deambulazioni vaganti, insieme a tortore e colombacci, quaglie con il cane da ferma, lepri con i segugi, becchi piatti sul lago e in palude, con nitticore, tarabusi e aironi, gallinelle, porciglioni, schiribille e folaghe, i così detti uccelli neri, che fanno ammattire i cani. Divenni malato del fascino della distesa delle acque cinte da esili canneti e da tagliente falasco. Il remare, il camminare e la fatica erano per me leggeri. Il mio più grande cruccio era rappresentato dall’arrivo del giorno della chiusura, quando avrei dovuto appendere il fucile alla rastrelliera mentre le buffate di uccelli nuovi erano ancora numerose e i becchi piatti mi avrebbero offerto nuove occasioni. Un noviziato pieno il mio, che completava il detto che cacciatori si nasce, aggiungendovi che cacciatori (anche) si diviene.
Memorie di un cacciatore
Dalla culla ai 90: tutta caccia
Il fascino del paese

di Adelio Ponce De Leon


Agli inizi degli anni Trenta attendevo con impazienza il giorno in cui avrei potuto cacciare con il beneplacito della licenza di caccia. Frequentavo il primo corso del liceo classico di Varese quando, il 26 gennaio del 1931, compii 16 anni. Era giovedì e a mezzogiorno, a tavola, sotto il piatto trovai la licenza, rilasciatami con il consenso paterno. I miei occhi, incontrandosi con quelli di papà, luccicavano come i suoi. Papà viveva la commozione di tramandare a me il culto della caccia venerato da secoli in famiglia. Promisi di non essere indegno di tanta tradizione.
Abitavamo a Varese. Appena riuscii a scattare dalla sedia inforcai la bicicletta da corsa e via di volata nonostante il gelo, giù per la discesa del Sasso fino al paese, nella casa avita, ove arrivai assiderato. Ma dentro ero caldo e pieno di bramosia cacciatoresca. Nonna Adele, custode della casa, rabbrividì vedendomi staccare dalla rastrelliera il pesante automatico, appesantirmi di cartucce e calzare, non avendo gli stivali, gli scarponi da montagna.

Il primo beccaccino
A quei tempi, di gennaio, la caccia era permessa ovunque. Ora mi sentivo padrone delle pianure, dei boschi, della palude. Miei erano i canneti rinsecchiti dal gelo invernale, le acque gelide e immote, i selvatici del falasco. La palude era quasi tutta gelata e, nonostante procedessi a passi leggeri, gli scarponi scricchiolavano sui ghiacci tra i ciuffi. Ma ero nel laghetto di Bardello ove mio padre diceva che non lo si batteva senza sparare almeno una fucilata.
Ogni tanto la patina di ghiaccio si spezzava. Subito piedi e gambe divenivano violacei, ma l’eccitazione e il movimento mi davano calore. Procedevo a zig zag attento e silenzioso con il fucile imbracciato pronto al tiro. Qua e là fra la vegetazione palustre predominava il muschio fra spiazzi accarezzati dal tenue sole. Solamente nei luoghi privi di ghiaccio ove predominava la torba, avrei potuto trovare il re dell’acquitrino. Sapevo che pochi beccaccini indugiavano ancora nonostante il gelo nella palude, i così detti pasturoni che non erano migrati verso i Paesi caldi. Erano già stati sparati nella stagione autunnale e perciò erano smaliziatissimi.
Uscendo da un canneto mi affaccio alla radura costeggiante le acque del piccolo lago. Non è ancora spenta l’eco di un improvviso gnech che tre o quattro beccaccini volano già alti verso il cielo e il boato serrato del mio automatico scuote il silenzio della palude. Le saette alate fuggono nel cielo sempre più alte, mentre impreco contro la mia precipitazione. Ma accade l’imprevisto. Un beccaccino rallenta, sbatte le ali e poi cade in picchiata come uno straccio accompagnato dal mio grido di gioia.
Solamente chi ha cacciato in palude senza cane sa che cosa vuol dire ricercare un selvatico abbattuto a più di cento metri. A occhi fissi, senza un battito di palpebra, percorro a balzi la distanza fissando un cespuglietto più alto, poi per terra, nel punto presunto di caduta, metto un cappello sul cespuglietto memorizzato. Man mano che il tempo passava mi veniva da piangere. Quasi annottava quando lo intravidi stecchito, seminascosto dalle erbe.
Padrone del mondo e del primo beccaccino della mia vita non mi accorsi delle sferzate di un forte vento di tramontana che accompagnava le mie intirizzite pedalate verso il paese.
Prima di andare a dormire, riempii la pagina “uno” del mio diario di caccia, che ho tenuto aggiornato fino a oggi.

A febbraio
A febbraio, spesso mi levavo dal letto due ore prima dell’alba, percorrendo con temperature glaciali oltre dieci chilometri per arrivare sulle rive del lago, ove mi aspettava il Giol per le battute con la spingarda. Niei periodi di gran passo cacciavo anche nei giorni di scuola, attento a rientrare per essere puntuale alle lezioni delle nove.
Ricorderò sempre il primo colpo di spingarda. Alle prime luci dell’alba, tre marzaiole nuotavano in mezzo agli “stelloni”. Lino mi dava le istruzioni mentre palettava: “attento a non uccidere i richiami. Aspetta un momento che si mettano da parte. Mira un poco in alto. Attenzione. Spara”. Il boato mi fece chiudere gli occhi. Quando li aprii non vidi che una nube di polvere dinnanzi al barchetto. Poi, a poco a poco, distinsi sull’acqua le tre marzaiole pancia all’aria in mezzo ai richiami miracolosamente incolumi.
La caccia con la spingarda era sicuramente di carniere, ma non la si poteva dire di comodità. Infiniti sono i preparativi: dal barchino al cannone, dalla scelta delle cariche al posizionamento delle anatre con corde e mattoni, dall’attrezzatura del cacciatore solo e con il compagno. I cacciatori di pianura e di montagna hanno i cani che si meritano, il cacciatore di spingarda aveva i richiami e le anitre che si meritava.
Quando l’Angiol, l’anziano spingardista del lago, mi iniziò alle battute, per me le anatre grosse erano germani, le piccole tutte garganelli. Più tardi distinsi al volo e al canto germani, fischioni, codoni, alzavole, marzaiole, morette e tutta la serie delle meno conosciute.
Il modo di disporre i richiami vivi e gli stampi aveva grande importanza perché risultassero efficaci zimbelli. Sarebbe stata nulla una femmina che aveva un compagno vicino, in quanto il maschio libero avrebbe indigiato su una femmina legata. La femmina con il maschio vicino non canta, ma emette un cigolìo udibile dai selvatici solo al mattino, quando è ancora buio.
Ora la caccia con la spingarda è stata proibita e gli insegnamenti sopradescritti mi sono stati utili nelle botti delle varie valli venete e soprattutto a Karlovac, in Croazia, quando ebbi la concessione per mettere venti botti in sei vasti laghi artificiali.

La primavera
Venne anche la primavera. Le lodole presero a salire in alto nel cielo, riempiendo dei loro trilli la pianura; poi arrivarono i colombacci, i tordi e i beccaccini.
Tutto quello che avevo sognato andava avverandosi e potevo deambulare solo con il fucile nel mondo della natura dimentico di ogni altra cosa.
Mezza giornata di pioggerellina fitta fitta era sufficiente a risvegliare la pianura e a ridare vigore a tutto. Rinverdivano le spianate, le campagne e i boschi; le prime punte di cacceggiole fiorivano. Risuonavano le mille voci della palude; versi di uccelli dal becco gentile e granivori, di rane e rospi, di topi e di tutti gli abitanti della natura.
Arrivavano finalmente i giorni del grande passo.
Non mancai di dedicarmi alla caccia alla lepre seguendo i segugisti su per l’aspra montagna del Campo dei Fiori, attento a conoscere quando la canea spingeva la lepre verso di me.
Sal Sasso la visione in un unico quadro di cinque laghi, il Varese, il Bardello, il Varano, il Monate e il Verbano, il tutto protetto da lontano dal massiccio del Monte Rosa cangiante di colori dall’alba al tramonto.
Di questo amore per il paese ebbi sentore ogni voltra che ne fui allontanato, rimarginandosi la ferita solo al ritorno.

Nostalgia inconsolabile
Giovinetto fui mandato in collegio. Aggrappato alle inferriate, appollaiato su un costone della Valle Olona, miravo per ore nella foschia la cima del Campo dei Fiori che digradava verso i Caldé e la Motta d’Oro. Sotto vi era il paese che vedevo con gli occhi della mente.
Da militare, le vicende belliche mi portarono per anni nel deserto del Sahara. Nelle notti umide o infuocate sognavo sempre il paese.
Uomo fatto, gli impegni della professione mi fecero trasferire nella metropoli (Milano).
Ma il paese è sempre là. Appena ritorno è festa per il mio cuore malato di nostalgia delle cose che non torneranno più.
Ora è uno scempio: strade, case, ville, stabilimenti, una giungla di mattoni ha invaso i miei campi, sradicato i boschi, i canneti sono stati divelti, la palude bonificata, le acque del lago, un giorno tranquille e baciate solamente dai remi cautamente immersi nell’acqua, sono imputridite dagli scarichi di stabilimenti e di tintorie, e sconvolte dai rumori dei motoscafi e dalle eliche impazzite.
Ma il monte è salvo, sempre come allora, senza strade e senza case, protetto come oasi, salvi i boschi di robinie, noccioli, castagni, frassini, faggi e betulle.
Quando voglio un po’ di serenità, mi arrampico fino alla Val Sara, ove mi attende il frullo di una beccaccia non più insidiata dai fucili.
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La giovinezza

di Adelio Ponce De Leon


Avevo ancora i pantaloni corti e già seguivo nelle battute di cacciatori locali.

Facevo lo schiavetto al Turin Balum (Ettore il pallonaio), uccellatore con la civetta sul paletto, alla metà del quale era infissa una gabbietta circolare con un foro centrale da richiamo per i primi catturati della giornata. Turin portava la sacca con le panie. Lo aiutavo a tirar fuori dalla panie le bacchette, smaliziato nel rotearle e nel rendere uniforme la patina di vischio. Sapevo che bisognava bagnare con la saliva le dita prima di toccare le bacchette per impedire l’appiccicamento del vischio.
Il giro venatorio era quasi sempre il medesimo come le località ove impiantare il tranello per gli uccelletti dal becco gentile. Sapevo come pulire i rami dei cespugli e come mettere in posizione le bacchette. Avevo imparato a imitare il sibilìo del pettirosso, il canto delle cincie, dei codibugnoli, dei basettini e dei saltimpali. Ero fiero della collana di fischi che mi pendeva sul petto.
Il Turin era stato punito da madre natura proprio nel senso indispensabile per udire e richiamare gli uccelli; era sordo come dieci talpe, ma era tenace. Gli ero utilissimo per segnalargli gli uccelli che si avvicinavano cantando, mostrandogli il fischietto adatto. Quando era solo, prima di richiamare un uccello doveva vederlo. Spesso chiamava cincie quando cantavano pettirossi e viceversa.
Rivedo quando si appiccicava un codibugnolo alla bacchetta; in un attimo veniva seguito da tutti gli altri che erano in gruppo con lui. Ho provato a staccarne dieci dallo stesso rametto, che si erano appiccicati in cinque minuti.
Seguivo pure un altro uccellatore, Attilio Crespi, fanatico per la caccia alle allodole con la civetta. Mi caricava sul seggiolino posteriore di una vecchia Indian 2000, un bolide rosso sgangherato, affidandomi civetta e paletto. E via, via a folle rumorosità sulle polverose strade del primo dopoguerra ancora ignare dell’asfalto.
Quando la Indian del Crespi attraverso i paesi rotolava, pareva arrivasse il terremoto. Attilio, piccolo e mingherlino, stava avvinto al manubrio dell’immensa moto e nessuno riusciva a capire come, così minuto, riuscisse a tenere l’equilibrio. Aveva il viso adunco da sparviero, l’occhio di faina e nessun ostacolo lo frenava. Le madri nei paeselli lo additavano ai bambini come “il diavolo”. Preferiva la palude del laghetto dove, tagliate le lische del falasco, il terreno paludoso diveniva un prato semiallagato ricco di semi e insetti, in cui spiccavano i cumoli delle erbe tagliate, messe in mucchio a rinsecchire. Riparato dietro un grosso covone, Attilio piantava la civetta a venti metri, tenendo le spalle al sole; allodole e pispole sembravano incantate dai suoi fischi e svolazzavano a giocare con la civetta. Sparava numerosi colpi. Il mio compito consisteva nel segnalare dove cadevano gli uccelli colpiti. Guai se non li raccoglievo tutti. Gli ero di tanto aiuto che Attilio che rinunciava alla caccia se il parentado non mi dava il permesso di andare con lui.
Per me era un giorno di festa quando convincevo papà a portarmi a uccellare nei dintorni del paese, giù fino al lago e al fiume, negli afosi pomeriggi di fine estate. Non gli davo requie, tormentandogli la pennichella che si concedeva dopo il pranzo durante la stagione calda. Merli, averle, storni erano le prede ambite, ma non un solo uccelletto capitava a tiro senza prendere la sua dose di pallini, tanto più che a quei tempi non erano vietati i minori dal becco gentile.

Nell’ampia cacciatora di papà…

… prendeva posto il calibro 28, pieghevole con il calcio solamente sagomato e svuotato per leggerezza e per attuire il rinculo. Ci appostavamo sotto un grosso fico o lungo i filari di vite e quando potevo imbracciare il 28 mi sentivo padrone del mondo. Con il fucile a carico ridotto ho fatto mirabilia al fermo e al volo, ma il tiro memorabile fu di mio fratello.
Cacciavamo merli lungo le ripe. Io seguivo mio fratello, che imbracciava il 28, con un bastone per battere i cespugli; un frullo, un colpo, un urlo. Fustachio corre e raccoglie da terra la preda morta. La guarda e grida “la beccaccia, la beccaccia”.
Seguivo mio padre alla caccia con il cane da ferma anche quando mi stancavo da scoppiare e mi divertivo meno che andando a uccellare. Ma i pochi attimi di ebrezza quando i cani incontravano, compensavano la fatica. Era una dura fatica tenere dietro a mio padre che, tra l’altro, era di una tenacia impressionante. Ricordo le paure che mi assalivano quando mi abbandonava solo sulle stridette, mentre “faceva” un bosco o una collinetta.
Un pomeriggio d’autunno, mentre lo accompagnavo al Mottarozzo, un cocuzzolo boschivo che sovrastava la palude di Bardello, Febo, bracco italiano, levò una beccaccia che si rimise sul lato nord del cocuzzolo ,senza che il papà riuscisse a separarle. In breve, quella beccaccia smaliziata frullò almeno altre tre volte, sfuggendo a due scariche della doppietta paterna e mettendosi sempre tra i noccioli o le robinie del Mottarozzo. Non avendo più la forza di seguire la battuta, fui lasciato solo alla base del bosco, su una strada verso la palude; imbruniva, l’umidità cominciava a penetrarmi negli abiti, le zanzare mi punzecchiavano senza sosta e non sapevo più dove si trovavano papà e il cane. Solo e ottenebrato di stanchezza, temevo di essere stato abbandonato sull’orlo della palude.
Tra le doti di papà a caccia predominava la cocciutaggine. L’oscurità incipiente rendeva quasi impossibile la mira, ma continuava a brancolare nel bosco imprecando alla “maledetta“ che era stata così astuta nel sottrarsi al cane e ai pallini del fucile.
Intanto il gracidare sempre più forte delle rane e dei rospi cancellava la mia pavida voce di richiamo. Ebbi paura anche della mia stessa voce. Annottava. Pieno di freddo e di paura, cominciai a piangere.
Improvvisamente una scarica, “pam… pam”, e un grosso uccello mi passò a due metri sopra la testa, sfarfallò e, superatomi, si buttò in un boschetto di pochi metri quadrati sull’orlo della palude.
Nello stesso momento si catapultò fuori dal bosco, nero di rabbia, mio padre, imprecando per l’ultima padella e contro di me, quando mi vide con le lacrime agli occhi.
“Che razza di uomo sarai se hai paura di stare solo cinque minuti su una stradetta… L’hai vista? Veniva dalla tua parte”.
“Sì, è passata sulla mia testa e si è messa in quel boschetto lì, sull’ orlo del laghetto”.
“Impossibile! Non ho mai visto una beccaccia lasciare il Mottarozzo”.
“Ti dico che aveva il becco lungo”.

Quasi non ci si vedeva più e papà, incredulo, si diresse verso il boschetto. Febo, che lo precedeva, entrò nel folto e un attimo dopo la beccaccia frullò, volando verso papà nel tentativo di ritornare al Mottarozzo. Un tiro facile e finalmente la beccaccia cadde.
“La maiala” urlò mio padre. “Mi hai fatto morire, ma ti ho presa”.
Avevo dieci anni e per la prima volta toccai la beccaccia ancora calda.
Dalla culla ai 90: tutta caccia

La fanciullezza

Mitraglietta, al secolo Adelio Ponce De Leon, continua con la narrazione delle varie fasi della propria vita, fra una punizione inflitta dal padre per avere, di nascosto, sottratto il flobert, e gli esperimenti armigeri/balistici effettuati con la complicità del fratello Eustachio, compresi i relativi incidenti di percorso...

di Adelio Ponce De Leon

Fin da fanciullo maneggiavo le armi accanto a mio padre, quando le toglieva dalla rastrelliera posta nel salone per spolverarle e pulirle, specialmente all’interno delle canne. Ricordo la sua quasi religiosità mentre accarezzava lo Scott che aveva comperato a Londra in Piccadilly Street, o il Tire Fire acquistato a Milano da Pino Buttafava, titolare della più prestigiosa armeria milanese, famoso cacciatore e tiratore potente di pedana, che aveva vinto due volte il Gran Prix di Montecarlo al piccione, che a quai tempi era il campionato del mondo di tiro al piccione. Poi il Torcione pesante dalle canne lunghissime, che colpiva selvatici a distanze quasi impossibili, poi il Browning a cinque colpi a mollone, gioiello di pochissimi, primo automatico dell’epoca, infine le doppiette: quella strozzata e quella a canne cilindriche e il calibro 16 e poi il 28, con il calcio svuotato inferiormente e solo con una forma idonea all’imbracciatura, che si piegava in due tanto da poter essere alloggiato nella cacciatora quando si andava a caccia di selvaggina minuta.
 
Non ricordo di avere imparato a sparare
Nella nebulosità delle mie reminiscenze infantili rimangono i fuciletti regali di Natale e mi pare di essere stato tiratore fin dalla nascita. Sono invece ben impresse nella mia mente le botte di papà quando si accorgeva che era sparito dai nascondigli più impensati l’otturatore del flobert calibro 6. Spendevo tutti i miei soldi delle paghette settimanali nell’acquisto di cartucce a palla e a pallini che la Soresina, titolare della drogheria con licenza di vendita di polveri e cartucce, mi vendeva di nascosto dai genitori e dalle autorità. Quando non arrivavano le botte di papà c’erano quelle di nonna Adele e di mamma Maria, le quali si accorgevano che il flobert era in attività perche le forbici di casa avevano le punte rotonde e smussate. Questo perché l’estrattore, da noi costretto ad un ritmo di estrazione continuo, si era smussato e non rimuoveva più il bossolo. Bisognava far leva con la punta delle forbici tra l’imboccatura inferiore della canna ed il fondello del bossolo. L’estrazione forzata aveva smussato anche il lato inferiore della canna e ben presto, allo sparo, le polveri combuste uscivano dietro l’otturatore, annerendo e bruciacchiando lo sparatore. Anche Eustachio, mio fratello maggiore, più vecchio di tre anni e che mi precedeva (ma io lo seguivo a ruota...) in ogni azione di caccia e/o tiro al bersaglio illegali, aveva la mania delle armi. Intorno al 1920 il Paese era pieno di bossoli e proiettili che i soldati avevano portato a casa a ricordo del fronte. Predominavano quelli del fucile 1891.
 
Costruivamo rudimentali pistole...
... modellando un pezzo di legno duro a foggia di calcio di pistola sul quale incastravamo un bossolo vuoto (che costituiva canna e camera di scoppio) del ‘91 mediante un filo di ferro su un’incanalatura superiore a forma di culla. Estratta dal bossolo la capsula sparata la pistola era fatta. Formato quindi un incavo alla base del foro generato dalla rimozione della capsula, vi si schiacciava un poco di polvere, si immettevano, senza borra, alcuni pallini nel bossolo e l’arma era pronta per lo sparo. Con uno zolfanello lo sparatore accendeva la polvere pressata contro il foro del proiettile ed il colpo partiva. A queste esperienze balistiche è legato un incidente. Caricata la pistola Eustachio ed io, per conoscere la forza di penetrazione dei pallini, avevamo preso un’asticella di legno compensato di mezzo metro quadrato. Io reggevo l’asticella con due mani di fronte alla mia faccia a protezione del volto; Eustachio doveva colpire l’asticella stessa in centro; aveva già acceso quattro o cinque volte la miccia costituita di polvere, ma questa bruciava senza che lo scoppio avvenisse. Stanco di tenere l’assicella alzata a protezione del viso, ma più che altro curioso di sapere perché il colpo non partisse, sporsi la resta dalla protezione. In quell’attimo avvenne il botto, seguito da una nube di polvere e fumo nero. Il bossolo del ’91, che in testa si restringeva, era scoppiato, mentre un parte dei pallini, per fortuna con poca forza di penetrazione e senza colpire gli occhi, mi arrivava sul viso assieme alla polvere trasformandomi in un negro.  Molto spavento, numerose bruciature e piccole ferite, ma per fortuna nulla di grave.

Teatro delle nostre imprese...
... giovanili erano il giardino, l’orto e il pollaio della casa, sita nel centro del paese con facciata sulla piazza. Le antiche porte di legno del muro di cinta del giardino, quasi tutti i muri, oltre a vecchi tronchi di faggi e noci, ancora oggi portano i segni delle pallottole del 6 e del 9. Qualsiasi cosa rappresentava per noi un bersaglio. I passeri, tanto numerosi ovunque, erano rarissimi nel raggio di cinquanta metri dal nostro raggio d’azione. Per anni estinguemmo le lucertole. Contro i gatti era bandita la “guerra santa” fino al giorno in cui avevamo trovato sbranato il cardinale dal ciuffo rosso, sultano assoluto nella grande voliera piena di uccelli di ogni specie. “Il cardinale no, non me lo dovevano uccidere!” esclamò nostro padre. L’uccello, allora a noi sconosciuto, lo aveva portato da Miami mio padre, quando si era recato nei Caraibi a visionare i terreni e le case ereditati dall’antenato Don Juan Ponce de Leon, che nel 1521 aveva scoperto, nel giorno di Pasqua, la nuova terra chiamandola Pasqua Florida. Altri terreni da visionare portarono mio padre anche a Portorico, ove l’antenato era stato il primo governatore Spagnolo e ad Haiti, l’antica Hispaniola, dove erano vissuti gli ultimi figli del conquistador. Da allora anche i gatti giravano ben alla larga dal nostro campo d’azione.

Un tiro di carabina fece scalpore
In giardino, assieme ad Eustachio e Rico, il figlio del giardiniere, gareggiavamo a centrare una scatola di latta appoggiata sopra una pietra. Spara Rico, la scatola vola via e nello stesso istante si ode un urlo di donna provenire dalla casa. Accorriamo. Alla sorella di Rico, Jole, fiorente bellezza nota per la sua avvenenza, che si tratteneva in casa ad uscio aperto in sollazzevole compagnia con il fidanzato, un tale Brivio, si era strappata la camicetta mettendo a nudo il seno. Era successo che la pallottola, rimbalzata su una pietra, era penetrata, fortunatamente solo per un centimetro, nella mammella sinistra, sotto il capezzolo, rigandole di sangue il petto. Fortuna volle che a sparare fosse stato Rico, suo fratello. La deliziosa visione del giovane seno della Jole, nudo fino all’arrivo del dottore, non fu sufficiente ad attenuare lo spavento e la preoccupazione per le conseguenze che vennero introdotte: non meno di tre mesi di abbandono di ogni attività sparatoria.
Le memorie di Adelio Ponce de Leon

Dalla giovinezza alla vecchiaia

I primordi

A partire da questo numero di Sentieri di caccia, l’autore, prestigiosa firma della letteratura venatoria, racconta la sua vita di cacciatore, dagli esordi ancora bambino in un lungo percorso (93 anni!) che ancora oggi non si è concluso

di Adelio Ponce de Leon

Superata la soglia dei novant’anni, non mi resta che rivivere la mia lunga avventura cacciatoresca nei ricordi che ripercorrono tanti cambiamenti, dalla caccia libera ovunque al susseguirsi dei divieti sempre più severi contro la nostra passione, alla fauna stanziale autoctona che è mutata nella quantità vicina all’estinzione o in novità di specie, in un panorama di esercizio tanto mutato durante un secolo.
All’inizio del Novecento, la caccia era praticata in massima parte da contadini, operai, impiegati, benestanti, gente del popolo che godeva della tranquillità della vita del Paese, paga della quantità di selvaggina abbondante nelle campagne, in pianura, nei boschi, in collina e in montagna, ove era possibile cacciare in ogni parte d’Italia con la sola licenza di caccia.
La maggior parte dei cacciatori era costituita da vaganti che riempivano il carniere con uccelletti, dagli insettivori ai granivori, con aggiunta di allodole, storni, merli, tortore, tordi e acquatici, quelli viventi ai margini dei laghi, dei fiumi, dei mari o nelle paludi.
La lepre, preda ambita, era il sogno di tutti e già nei paesi si formavano compagnie di seguisti; la fauna alpina era più preda dei montanari, la maggior parte bracconieri; pochi gli specialisti della selvaggina nobile quale la starna, la pernice, la beccaccia, il beccaccino.
La nobiltà e i ricchi cacciavano in grandi tenute e riserve, in Piemonte attorno alle riserve reali o nelle poche padronali, ove primeggiava quella di Palanfrè ai confini con Sant’Anna di Valdieri, fondata da Vittorio Emanuele II, in Toscana dai Gherardeschi, Rucellai, dai Medici, nel Lazio dai Barberini, Colonna, Odescalchi, anche nella Maremma toscana e laziale, specialmente a cinghiali, quelli autoctoni, eredi delle cacciate degli antichi romani.
L’entrata in guerra del 1915 portò la maggior parte dei giovani e degli uomini validi sotto le armi e molti cacciatori, quasi tutti, andarono al fronte. Il territorio, in cinque anni, si arricchì di selvaggina non più insidiata dai cacciatori.

Ancora in fasce, nella culla, ho aspirato il profumo della caccia…

… quando Zanzur mi annusava leccandomi. Zanzur, uno sloughi tutto nero, lo aveva portato dall’Africa lo zio Dante, guardiamarina sull’Amerigo Vespucci al tempo dello sbarco in Libia durante la guerra italo-turca. Lo aveva prelevato sulla soglia della moschea di Zanzur, abbandonato dai turchi in fuga. Il veloce levriero del deserto vegetava nella grande casa prealpina soffocata dieci mesi all’anno dalla nebbia mattutina che sale dal lago. Addormentato, sognava forse la sabbia ocra delle dune e le infuocate pietraie dell’Hammada e del Serir, consunte dal sole e dal Ghibli, le corse sfrenate nel deserto, la terra di tutti e di nessuno, priva di qualsiasi ostacolo. Viveva le sue giornate raggomitolato ai lati della mia culla, perché i boschi e le colture prealpine gli vietavano le ebbrezze della velocità. Poi mio padre lo aggregò alla muta dei segugi del Guglielmo del lago e divenne un portento. Superava le lepri in velocità, come faceva nel deserto, e le obbligava a deviare verso le poste dei cacciatori.

Ho aspirato l’odore della cucina…

… nelle braccia dell’ava materna Adele, gelosa custode di ancestrali ricette, giunte a lei tramandate di madre in figlia, ricette a base di lepre, di camoscio, di capriolo, di cinghiale, e passate a Maria, mia madre, per testamento in busta chiusa. Solamente un estraneo, oltre alla servitù, aveva accesso alla cucina di nonna Adele, una volta all’anno, il 20 settembre, festa nazionale per la breccia di Porta Pia e giorno della sagra del paese, un tal Milesi, che aveva fatto lo chef sui transatlantici per oltre trent’anni. In quella data convenivano nella avita casa i parenti delle due casate, la paterna e la materna, a gustare il salmì preparato con il camoscio che tutti gli anni papà Antonino uccideva a Palanfrè, nelle Alpi del Colle di Tenda.
L’odore forte della carne cruda che, partendo dalla cucina, attraverso i locali arrivava fino al salone, penetrava nelle mie narici di fanciullo, scavando la smania per la selvaggina di pelo.

Nel razzolare nel giardino con i cuccioli di Diana…
… prolifica setter bianco-nera, ho imparato a conoscere e ad amare i cani da caccia. A quei tempi le Prealpi pullulavano di starne e papà con Peppi, o Maggioni, signorotto locale, gareggiava nella caccia alle beccacce e alla selvaggina nobile stanziale, destando l’invidia dei pochi cacciatori del paese.

Non avevo ancora l’età della ragione…

… e già distinguevo gli insettivori dal codibugnolo, al pettirosso alle cincie e poi le pispole e le allodole e poi i tordi e le tortore e in ultimo le starne, le quaglie, le beccacce e il gallo forcello, che mio padre portava giù dalle Alpi. Papà mi metteva tra le mani i selvatici, mi insegnava a trovare e a staccare la piuma del pittore dalla beccaccia, a distinguerne l’età dalla costa delle remiganti primarie, a losanghe o tutte bianche. Guardando e toccando le prede aspiravo il profumo tenue della quaglia, quello forte della penice e quello intenso della beccaccia. Nelle sere d’inverno e in quelle precedenti l’apertura, tra bossoli, misurini, pallini, borre, orlatori sparpagliati sulla tavola, prendendo scapaccioni per le irrefrenabili esuberanze, le mie mani venivano impregnate dall’odore della balistite e della Walsrode, cui si aggiungeva quello delle munizioni e del piombo. Aspiravo il profumo della polvere sparata uscente dai bossoli pronti per il ricaricamento.

Nella piazza vecchia del paese…
… di fronte alla nostra casa, c’era il caffè dei “brutti e buoni”, il Veniani. Giuseppe, il proprietario, era fanatico per la caccia e mi raccontava episodi che riguardavano la sua passione. Là, il Zanolini, armaiolo e tiratore di pedana, mi aveva insegnato a imitare il canto delle allodole e delle quaglie, il Maggiori il fischio di tutti gli insettivori di bosco da cacciare con la civetta e le panie vaganti, e il Crespi il modo di costruire gli zimbelli. Maestri, abituali frequentatori del caffè dei cacciatori.
Apprendevo tutto di ornitofilia in giardino, quando aiutavo a pulire le gabbiette con i fringuelli, cardellini, tordi, merli, montani, lucarini e ciuffolotti. Seguivo papà ogni volta che scendeva nel sottoscala per portare il cibo alla civetta, la quale, guardandomi con gli occhioni aperti, mi eccitava facendo il gioco dell’abbassarsi e alzarsi di colpo.
Mi sono impregnato del puzzo della melma, libero fra i falaschi e i canneti del lago, curando per ore il tarabusino che attraversava da un canneto all’altro.
Ho aspirato l’odore dei boschi a primavera, alla ricerca dei primi nidi di merli, quelli di marzo, quando ancora non vi sono le foglie sugli alberi e le uova vengono deposte nei buchi dei tronchi, l’odore dei campi d’estate inebriandomi del canto delle allodole, il sapore della notte sentendo nel giardino il canto dell’usignolo, nei boschi d’autunno portando sulle spalle le panie imitando il canto del pettirosso, delle cincie, del codibugnolo, impiastrandomi le mani e i vestiti di vischio.
Odori acri e dolci, sensazioni violente e tenui che mi sono entrate prima nel fisico per trasmigrare poi nello spirito.
Odori, suoni, visioni, fatti, personaggi che hanno impregnato i miei anni infantili, un pourpurrì venatorio che aumenterà con il progredire degli anni.
I cacciatori vittime delle sensazioni della caccia sono privilegiati che vivono in un mondo di purezza e di colori intenso, sconosciuto e vietato ai più.