Compagni di Caccia

Puntuale come il minimo regolare della sua Guzzi, Antonio si era presentato all’appuntamento. L’umidità della notte aveva reso viscido il manto stradale che lustro come uno specchio rifletteva la luce gialla del grosso faro. Non era un vero e proprio appuntamento, di quelli per intenderci che si stabiliscono la sera prima, ma più semplicemente una consuetudine: Antonio lavorava di notte come meccanico presso il deposito degli autobus dell’azienda municipale e staccava all’alba, giusto in tempo per andare a prendere il suo amico, il Maresciallo, che durante la stagione venatoria faceva carte false per farsi assegnare il turno di notte ed essere di conseguenza libero durante il giorno per dedicarsi alla sua passione di sempre: la caccia.
I due erano profondamente diversi: Antonio era quello che si può definire un pezzo d’uomo, alto più del normale, con tanti capelli in testa conservava, malgrado gli anni, un aspetto da ragazzo con un sorriso sincero che piaceva alle donne. Il maresciallo al contrario, dimostrava tutti gli autunni che i suoi occhi avevano visto: più di cento chili portati allegramente ed un faccione bonario, da racconto di Guareschi, sul quale spiccavano due baffetti da “tombeur de femme”, “..la mia arma segreta con le donne” come spesso amava ripetere.
Antonio iniziava ad innervosirsi, il tempo passava e la strada da fare non era poca. Il Maresciallo aveva prestato servizio negli anni della guerra, da poco finita, presso la piccola caserma di un paesino ai confini tra Lazio ed Abruzzo, assorbito nell’unico incarico di mantenere l’ordine tra gli sfollati. Per sua fortuna la pace regnava tra quella povera gente, e lui aveva un mucchio di tempo libero.
Sebbene il comando tedesco avesse intimato la consegna di tutte le armi, comprese quelle da caccia, disubbidendo all’ordinanza, aveva nascosto la fida doppietta cal. 16 in un pagliaio, ben avvolta da uno straccio impregnato d’olio, perché si conservasse dall’umidità. Complice del suo unico reato un paesano, uno di quelli dai quali un servitore della giustizia si dovrebbe tenere lontano. Franco Del Duca, questo era suo nome, sopravviveva con quello che ogni nuovo giorno gli offriva: faceva la staffetta con il tabacco di contrabbando, che una volta quasi restava falciato da una scarica dei militi, o metteva i lacci nelle riserve padronali. Nei periodi di secca pescava di frodo con le mani nelle buche e di notte si riempiva di gamberi che vendeva ai ristoratori romani. Qualche piccolo lavoretto serviva infine a garantirgli un pasto caldo ed una notte di passione da una delle vedove, che sempre più giovani e numerose abitavano in paese…e così gli scorreva la vita.
Portava sempre con sé una doppietta cal. 16, un Bayard che il padre gli aveva consegnato poche ore prima di partire per la guerra, quella di Spagna, dalla quale non sarebbe più tornato.
Il maresciallo aveva trascorso quegli anni come i più belli della sua vita. La guerra era nei racconti di chi ogni tanto passava per andare o, negli ultimi tempi, per scappare dal fronte. Le lunghe file dei mezzi militari attraversavano il paese sollevando la curiosità dei vecchi. I giovani e le donne se ne stavano nascosti, i primi per paura di essere deportati, mentre le seconde per la fama che quegli uomini, alti come alberi, si portavano dietro. Tutto quello che c’era da sapere sul paese, lo aveva imparato da Franco. Gli aveva mostrato i covacci delle lepri tra le stoppie residue e come le donne si trasformassero, in una facile preda, mentre spigolavano, da sole, lungo i campi. Lo portava con sé a spiare le starne quando, la sera, si spollinavano sulla strada e gli aveva indicato il varco dei cinghiali sul greto del torrente.
Quanto tempo era passato da allora, pochi anni ma sembravano secoli, sufficienti per dimenticare un amico ed incontrarne un altro che, con la sua esuberanza, lo faceva sentire vivo alimentando una passione che gli anni altrimenti avrebbero, se non sconfitto, almeno sopito.
Ed invece eccolo lì, sulla porta della caserma, già pronto per la nuova giornata di caccia.
Al ritmo “dell’affettasalame”, il grosso volano cromato, la moto saliva per la Tiburtina lasciandosi alle spalle la città che ancora dormiva. Curva dopo curva le cime delle montagne si facevano più vicine, mentre ai lati della strada, cadaverici ruderi di case bombardate ricordavano i tristi eventi appena trascorsi. Ogni tanto una flebile luce testimoniava un’ostinata presenza umana, mentre i contorni delle montagne si rendevano sempre più nitidi man mano che la luce dell’alba invadeva la scena. Qualche uccello notturno si faceva sorprendere sull’asfalto dalla luce del faro, salutato dall’abbaiare dei cani che ingolfavano uno dei due posti del vetusto sidecar. L’autunno era alle porte e l’aria frizzante del mattino puliva il viso, e la mente, dalle rughe del vivere quotidiano.
Finalmente arrivarono alla meta, un piccolo casotto rosso di quelli utilizzati dagli stradini per appoggiare gli attrezzi. Antonio possedeva, chissà come, la chiave del lucchetto e dopo aver scaricato il bagaglio, spinse il pesante mezzo all’interno della semplice costruzione che già, il maresciallo, gli urlava di sbrigarsi perché il sole era ormai alto.
Avanzarono con i cani al guinzaglio lungo un prato che separava due colli. La rugiada del mattino bagnava gli scarponi, “Roba di prima della guerra”, ripeteva a voce alta, quando le cose le facevano bene. Avesse visto Antonio, pesava tra sé, le scarpe di cartone che avvolgevano i piedi dei suoi camerati in Albania, pochi passi nell’acqua bastavano per perdere la suola eppure marciavano, in silenzio, come eroi predestinati, perché altro non si poteva fare.
Erano arrivati al centro della valle, quando dalla cima delle colline gli giunse il canto delle starne. Individuarono la brigata più vicina e, sciolti i cani, si allargarono per non disturbarsi e tentare di chiudere le pernici, che al primo accenno di ferma frullarono con fragore, lontano dalle doppiette. Al secondo tentativo alcune si sbrancarono, una in particolare, dopo essere passata sulla testa del maresciallo a doppietta scarica, si infilò in una rogara: “Sei fatta” penso dirigendosi prontamente verso la rimessa.
Un breve dettaglio nel punto in cui la starna probabilmente aveva toccato terra che non dava adito a dubbi: l’aveva nel naso. Alla ferma del cane si spostò verso la vegetazione, poi cambiò idea. Infine scelse la posizione e comandò al bracco di forzare il selvatico. Un frullo, uno sparo e tutto era finito. Il cane riportò la starna senza sciuparla, cosa che destava meraviglia ogni volta in Franco, che non aveva mai posseduto un cane da ferma.
La giornata si srotolò tra ferme, frulli e qualche padella, fino a quando, ormai appagato, Il maresciallo decretò che era giunto il momento di rientrare. Arrivarono, alla moto, madidi di sudore ma felici. Un discreto carniere di starne uscì dalle cacciatore, per essere religiosamente riposto, nel vano del sidecar. Poi fu la volta dei cani che si acquattarono all’interno dello stesso. Infine salì il Maresciallo con i fucili ed Antonio, dopo aver preso posto in sella, si alzò in piedi sulle pedane, scalciò sulla pedivella, ed acceso il motore, prese la strada del ritorno.
Avevano percorso pochi chilometri quando il Maresciallo, strattonandolo per la giacca di pelle nera da vero motociclista, intimò ad Antonio di fermarsi. Capitava ogni volta che passavano davanti a quella piccola costruzione bianca che, pur non essendo un cimitero, ne aveva tutta l’aria.
Il Maresciallo scese dalla moto e, dopo essersi fatto il segno della croce entrò. All’interno c’era una lunga fila di lapidi, ognuna di queste portava una fotografia e qualche fiore appassito. La costruzione era appena abbozzata perché si doveva ricostruire per i vivi e nessuno si preoccupava ancora dei morti.
Le date ricordavano uomini giovani anche se, dalle foto, sembravano vecchi. Tra queste una riportava il nome di Franco Del Duca.
Era accaduto negli ultimi giorni d’occupazione. Franco, ignorando le raccomandazioni del compagno, si era fatto sorprendere, con la doppietta, all’interno di una riserva padronale. Un guardiacaccia, troppo zelante, lo consegnò ai carabinieri dai quali fu prelevato, con la forza, da un gruppo di tedeschi in ritirata. Sul camion che lo trasportava c’erano uomini di tutte le provenienze, alcuni ebrei e qualche partigiano. Appena usciti dal paese, dopo averli fatti scendere dal camion, li falciarono con una scarica di mitragliatrice. Di tutti quei giovani, Franco, era stato l’unico ad avere il privilegio di morire con il profilo delle sue montagne negli occhi.
Lui, Il Maresciallo, non aveva potuto far nulla perché, in quei giorni, si trovava a Roma per accudire sua moglie mentre metteva al mondo il loro terzo figlio, quello che avrebbero chiamato Franco.
La voce di Antonio che lo chiamava lo riportò alla realtà. Un giorno forse avrebbe raccontato all’amico quella storia che, oggi, faceva ancora troppo male. Si avviò, come sempre senza voltarsi verso l’uscita, con la morte nel cuore mentre, il ritmo regolare del minimo della Guzzi, lo richiamava alla vita.  

                                                                                                             Giacomo Cretti