Le memorie di Adelio Ponce de Leon - Parte Quinta

Memorie di un cacciatore

Dalla culla ai 90: tutta caccia

Il noviziato

Ho avuto la fortuna di nascere in un paese delle Prealpi lombarde, tra laghetti e paludi, pianure, colline e monti, in un ambiente che pareva creato per gli amanti dell’acqua, dei boschi, dei prati, delle abetaie e delle pietraie. Un paese che si trova sulla sponda di un lago, alle falde del massiccio montano del Campo dei Fiori. Nato in un palazzo antico, dotato di un immenso parco dove trovavano posto un canile capace di ospitare dieci cani, una voliera gigante con all’interno un grosso faggio, che dava l’illusione e la possibilità agli uccelli di vivere come in libertà, un orto con ogni varietà di prodotti per la cucina, un frutteto ricco di ogni tipo di pianta da frutta e un giardino con fiori e alberi do ogni tipo; questo parco ha avuto il merito di insegnarmi a conoscere e ad amare il mondo vegetale in ogni momento del suo sviluppo stagionale.

Il mio lago!
Il mio lago distava trecento metri dal palazzo; sulla riva, vicino ad un canale che portava verso il largo, c’era una darsena, una grande costruzione che poteva contenere dieci barche, e sul cui frontespizio troneggiava una grande lastra di granito che arrivava a cinque metri sopra il livello delle acque; su questa lastra erano presenti, dalla parte che si affacciava sul lago, i livelli scolpiti delle varie piene che avevano interessato il lago nel corso degli anni. L’aveva acquistata mio padre dal nobile Maggioni, che l’aveva a sua volta ereditata dal marchese Litta, allora proprietario delle acque del lago. All’interno della darsena c’era quella che io chiamavo “la mia flotta”: il sandalino ad un remo a due pale per le scorribande estive di fronte al lido, ma usato anche nelle giornate caratterizzate da forti temporali, quando le rive erano deserte (anche dai guardia pesca...), per gettare in acqua palline di polenta miscelata con bacche di coccolo pestate in un mortaio, vera droga per i pesci, che, ingoiandole, rimanevano storditi per almeno una mezzora, durante la quale nuotavano pigramente a pelo d’acqua. Li inseguivo con il veloce sandalino e li prendevo, in grandi quantità, con un capiente retino. Un bracconaggio giovanile, reato da tempo estinto per “decorrenza termini”; c’era poi il vecchio barchetto da pesca che si faceva avanzare remando in piedi sulla poppa, con la prua che si alzava di circa mezzo metro sopra il livello dell’acqua, cosa che consentiva di penetrare nei canneti che per chilometri bordavano le rive e che serviva anche come appostamento fisso ovunque, perché le alte canneggiole lo nascondevano ai selvatici in volo e in planata sul gioco di stampi; poi c’era la barca padronale, che avevo battezzato Callipigia per la sua poppa tondeggiante e per un gioco di pazzia goliardica; infine c’era il barchetto con la spingarda, il mio gioiello per la caccia ai becchi piatti, in antagonismo con le altre sei spingarde sempre in lotta fra loro per arrivare per primi a tiro alle anatre posate.

La spingarda
Rivivo i momenti frenetici che si susseguivano quando iniziava l’emozionante avvicinamento ai branchi di anatre posate sulle acque del lago. L’accostamento lo effettuavo sdraiato supino sul fondo del barchetto, con il viso rivolto alla punta e gli occhi incollati al mirino presente alla base del lungo cannone, le gambe e i piedi sulle pedivelle per azionare le palette che davano forza propulsiva sott’acqua, in modo da non provocare onde che avrebbero insospettito i selvatici, con l’automatico usato per ribattere gli uccelli feriti disteso a fianco al corpo; occhi sul mirino e dito sul grilletto della spingarda per sparare al momento giusto, il tuono della potente cannonata che squarcia la quiete del lago, la visione del risultato buono o cattivo del tiro. Emozioni forti, frenesie intense che solo lo spingardista ha assaporato.

Un posto da favola
Il paese sulle rive di un ampio lago, dove sono tuttora presenti vestigia di antiche palafitte, un fiume ai suoi confini, una pianura ubertosa, con vigneti e colture varie ai piedi di un grande massiccio montano che arrivava ai mille metri s.l.m. appagavano il cacciatore e soddisfacevano qualsiasi esigenza venatoria. La selvaggina stanziale, lepre in testa, era abbondante e la migratoria silvana e palustre nelle vicine paludi della Brabbia e del laghetto alimentavano qualsiasi tipo di caccia. Lungo le sponde del fiume Bardello, emissario del lago, i rallidi, per la maggior parte gallinelle d’acqua e porciglioni, facevano impazzire i cani, insieme ai palmipedi feriti che si rifugiavano nello sporco delle sponde dopo le sparatorie effettuate sul lago. Sul fondo sabbioso del fiume si pescavano con il guadino a maglia fine le uselline (i cobiti, Cobitis taenia) le esche preferite dai persici reali insidiati con la tecnica della tirlindana. Nei giorni di grande passo e ripasso le paludi di Bardello e della Brabbia venivano scosse da coppiole e da scariche di automatici, mentre i cinofili non davano tregua al re dell’acquitrino, il beccaccino. Ad esso facevano da corona palmipedi, trampolieri e rallidi. Barchetti, tese, appostamenti erano sempre occupati dall’alba al tramonto e in alcune giornate anche di notte.

Una grande varietà di animali
Sovrastavano il paese le colline della Motta d’Oro, del Careg e del Caldé, insidiate dai boschi di robinie, che preparano un sottobosco pulito e vermicoloso, che sembra fatto apposta per invitare la beccaccia alla sosta diurna. Verso il lago Maggiore si estendeva una pianura opulenta di coltivazioni, principalmente frumento e granturco, inframmezzate da vigne e prati; ricordo i branchi di starne, un tempo numerose, che razzolavano alla ricerca di cibo. Nella piana echeggiava sopra tutto il richiamo delle quaglie che attendevano di deporre le uova nel nido; canti che, appena nati i piccoli, si accompagnavano ai trilli delle allodole di passo e stanziali. Le lepri, ovunque presenti nei boschi e nei coltivi, vivevano nell’angoscia dell’apparizione del loro terribile nemico, il segugio, il cane più allevato nella zona. Su per le acciottolate, ripide stradette che dai Caldé vanno su verso il forte di Orino, la canea correva lungo le vallate più in fretta delle gambe dei segugisti che si affannavano per arrivare prima della lepre al crocicchio letale. All’altezza del Forte (situato a circa mille metri s.l.m.) che strapiomba in Valcuvia, costruito dai soldati durante la prima guerra mondiale nel timore che gli austriaci passassero dalla Svizzera per attaccare l’Italia, si contavano ogni anno dai tre ai quattro branchi di coturnici. Vivevano tra la cime del Forte e la punta delle Tre Croci, prima che un intenso rimboschimento di pini togliesse alle regine delle rocce l’habitat indispensabile per vivere. Cesene, tordi, merli e tutti i migratori minori sceglievano per il loro percorso migratorio la corrente che passava per il paese, dove abbondavano roccoli, capanni e appostamenti fissi.
Non v’era che la scelta del selvatico e di come cacciarlo.

Una conoscenza capillare
Del mio lago, della mia terra, fin dai tempi della fanciullezza e prima che avessi un fucile fra le mani, conoscevo ogni anfratto e ogni zolla, così come conoscevo ogni rifugio preferito dalle lepri e ogni nascondiglio delle starne, dal momento che queste e quelle si riproducevano sempre negli stessi luoghi. Così come conoscevo gli specchi preferiti dalle marzaiole, dai germani e dalle folaghe e mi era noto ogni fazzoletto di palude ove il beccaccino era sempre in pastura.
Amavo il mio paese quasi carnalmente, l’amavo per i suoi colori, verde pallido in primavera, scuro in autunno e grigio e bianco d’inverno e per il suo volto sempre nuovo e pur sempre uguale. Era la terra del grano, dei bei campi sempre curati, erano le acque delle ninfee gialle e bianche, dei canneti folti e impenetrabili.
In quei luoghi aveva inizio la mia avventura che doveva durare per tanti anni, con un noviziato consumato in ogni genere di caccia: cominciava quando ancora era notte, nelle tese, poi nei fossi, nelle pianure e nei boschi. Insettivori e granivori con le panie vaganti e la civetta, poi allodole, merli, tordi e storni nelle deambulazioni vaganti, insieme a tortore e colombacci, quaglie con il cane da ferma, lepri con i segugi, becchi piatti sul lago e in palude, con nitticore, tarabusi e aironi, gallinelle, porciglioni, schiribille e folaghe, i così detti uccelli neri, che fanno ammattire i cani. Divenni malato del fascino della distesa delle acque cinte da esili canneti e da tagliente falasco. Il remare, il camminare e la fatica erano per me leggeri. Il mio più grande cruccio era rappresentato dall’arrivo del giorno della chiusura, quando avrei dovuto appendere il fucile alla rastrelliera mentre le buffate di uccelli nuovi erano ancora numerose e i becchi piatti mi avrebbero offerto nuove occasioni. Un noviziato pieno il mio, che completava il detto che cacciatori si nasce, aggiungendovi che cacciatori (anche) si diviene.