Memorie di un cacciatore

Dalla culla ai novanta: tutta caccia
Sotto le armi: pensieri, ricordi, sogni

di Adelio Ponce De Leon


La caserma del Terzo Carristi in San Ruffilio di Bologna mi inghiottì in una tarda sera di fine autunno per il corso di allievi ufficiali. L’Italia era occupatissima nell’irrobustire i quasi otto milioni di baionette. Mi accorsi subito di questa urgenza perché non si aveva nemmeno il tempo di respirare. Appena arrivato al corso ero diventato un numero, una nullità, fino al momento in cui, terminata l’istruzione formale, ci portarono al poligono di tiro. Scaricai i due caricatori nel centro dei bersagli, superando anche gli istruttori. Divenni “qualcuno” il giorno in cui sparammo dal carro armato in movimento con la mitragliatrice. Il ritmo frenetico del corso concedeva un minimo di spazio la sera, dopo il silenzio, nel duro letto che costava tanta fatica rifare, identico al centimetro a quello accanto, all’alba. Prima di chiudere gli occhi, ottenebrati dalla stanchezza per la giornata passata sempre di corsa, andavo con la mente alle vicende di caccia di quella stagione, che era stata stroncata nel momento più bello del passo. Tutti amiamo fantasticare prima di dormire. Sognare ad occhi aperti gli episodi del passato, immaginare imprese eroiche, essere protagonisti delle ambizioni coltivate da sempre. Io amavo ricordare gli episodi venatori che mi avevano dato tante soddisfazioni.
Come quel giorno in cui mio padre invitò il Procuratore del Re e il Primo Pretore di Varese a caccia nella riserva di Tradate. Partimmo che era ancora notte con il primo treno delle Ferrovie Nord, in seconda classe, in quanto non si potevano portare i cani sui velluti rossi della prima. Tissi, il Procuratore, giuliano e legionario fiumano, buon cacciatore, e Leosco, il consigliere, gran padellaro e mio padre confabulavano per organizzare la logistica della cacciata. “Nella riserva non è consentita la caccia a gruppi di più di tre cacciatori” disse mio padre “e noi siamo in quattro”. I tre personaggi, all’unisono, rivolsero lo sguardo verso di me, giovincello pallido e magro, e subito mio padre aggiunse “noi tre andremo ai Ronchi, sopra la ferrovia, dove abbondano lepri e c’è la possibilità di trovare qualche beccaccia” poi, rivolgendosi a me “tu andrai sotto la ferrovia, verso la Cassinetta. I cani li prendiamo noi, devo far divertire i miei ospiti”. “Mah” osai obiettare, “senza di me chi andrà nel folto, chi guiderà i cani, chi scoverà le lepri al covo?” “Taci saputello, con Tissi prima di mezzogiorno avremo fatto la quota; appuntamento al bar della stazione” disse autoritario mio padre. I tre, prima di lasciarmi solo, spavaldi, mi licenziarono con un sorriso di scherno. Mi incamminai così, da solo, verso i boschi della Cassinetta. Era una fredda giornata di novembre, con il terreno coperto di brina. Nell’attraversare un campo arato scrutavo fra le zolle sconnesse perché sapevo che, quando il terreno è brinato, la lepre ama aspettare al pulito i primi raggi del sole. La individuai una frazione di secondo prima che schizzasse via, a una decina di metri. Si trattava di un tiro facile e infatti la colpii di prima canna. Poi, soddisfatto, mi diressi verso il grande bosco di robinie per controllare se vi si fossero rifugiate le starne levate dai cani dei cacciatori mattutini. La brigata si rimetteva sempre in uno spiazzo pulito che si apriva nel grande sottobosco di pagliettoni; fucile a bracciarm, senza fare il minimo rumore, trattenendo quasi il fiato, procedevo con cautela. Il frullo fragoroso del branco non mi colse impreparato: mirai con calma, facendo un bel doppietto. Poi mi diressi verso la presunta rimessa, che immaginavo potesse essere un altro piccolo spiazzo pulito. Ancora una volta ero riuscito ad arrivare a tiro riuscendo a incarnierare la terza starna. La seconda lepre potevo andare a cercarla solo percorrendo pian piano il fondo del Fontanile, scrutando attentamente le due sponde coperte di erbe basse e roveti. Avevo imparato dal vecchio bracconiere Framasun le malizie per scorgere la lepre al covo. Eccola! Intravidi un occhio e un pezzetto di testa in un groviglio di rami e foglie. “Se la faccio partire non riuscirò a spararle perché sparirà appena dopo il salto” penso. Sono senza cane non per mia scelta, così sacrificai la sportività dell’azione alla piccola rivalsa nei confronti di mio padre e dei suoi ospiti. Mirai davanti e sotto al muso per non rovinare la lepre e lasciai partire il colpo. Due lepri e tre starne, la quota era completata; mi diressi verso la stazione, carico di peso e di soddisfazione. Dovendo attraversare il bosco del Ponte, come al solito, procedetti a zig-zag, indugiando a scrutare il terreno. Venni attratto da alcune fatte freschissime di beccaccia. Tolsi il fucile dalla spalla e mi tenni pronto, avanzando piano; fatti pochi passi la beccaccia frullò a campanile e la abbattei senza difficoltà. Al bar della stazione venni attorniato dai clienti domenicali. “Sono stanco, prenderò il primo treno, consegnate a mio padre e ai suoi amici questa roba” dissi loro, e posai lepri, starne e beccaccia su di un tavolino. A sera seppi che i tre grandi cacciatori avevano fatto cappotto…
Oppure come quell’altra volta in montagna, al Sass Gross, nella riserva Cocquio, con mio padre e mio fratello Eustachio. Una faticosa giornata nei boschi scoscesi di robinie, noccioli e castagni, durante la quale vedemmo un solo fagiano che si buttò a palla verso il basso come un forcello. Eustachio riuscì a centrarlo in piena picchiata. Stanchi decidemmo di scendere verso il paese. Mi dettero del pazzo quando feci loro la proposta di attraversare il paese e di battere le campagne di confine con il terreno libero giù verso Bardello. Cocciuto li abbandonai e mi buttai nella ripida discesa. In meno di un’ora arrivai alle campagne ondulate imbattendomi in un grande passo di allodole. Feci fuori quasi tutte le cartucce con pallini grossi adatti alla stanziale ottenendo comunque un pingue bottino. Nell’unica marcita di tutta la riserva, nascosta fra filari di pioppi, alzai e abbattei due beccaccini di passo, lenti e prevedibili, che proprio per nulla fecero pensare alla “saetta alata”. Incarnierai anche una pavoncella che staccai da un piccolo voletto che mi passò sulla testa. Stanco, mi trascinai verso casa attraverso i campi. Mi era rimasta una sola cartuccia con pallini del 12. In un campetto di ravizzone (Brassica campestris L. var. Oleifera D.C. n.d.r.) mi schizzò fra i piedi un leprone. Tolsi il fucile dalla spalla e sparai. La lepre, colpita in pieno dalla scarica di pallini piccoli, iniziò a fare giri su sé stessa sempre più larghi tentando di fuggire. La inseguii a gran salti cercando di colpirla con il fucile scarico usato come clava… Finalmente riuscii a finirla e mi accasciai esausto a terra. I cacciatori del paese mi dissero che si trattava di quella famosa, maledetta lepre che da mesi faceva ammattire i segugisti locali. I cani la braccavano e poi, improvvisamente, spariva. Non credettero che fosse caduta con ignominia sotto una scarica di pallini del 12 in un prato e per giunta alzata senza l’ausilio di un cane.
Quando la faticosa giornata al Reggimento finiva e piombavo nel sonno, gli occhi si chiudevano sulla visione del lago, con il barchetto e i branchi di germani e di becchipiatti in genere che venivano bombardati con la spingarda, sulle saettanti volate dei beccaccini nella palude Brabbia o nel laghetto di Bardello, sui branchi di starne nei coltivi e nelle colline fin sulle sponde del Lago Maggiore, sul pa… pa… pa… ovattato delle beccacce alzate sul grande massiccio del Campo dei Fiori fino al fortino di Orino, a circa mille metri s.l.m. Compagni militari, amici per la pelle, furono tre o quattro cacciatori. Vissi alcuni sprazzi venatori nei sei mesi del corso quando, al campo di Marzabotto, divanuto poi tristemente celebre per la feroce rappresaglia nazista, inviato sui calanchi aggettanti sul fiume Reno a fare esercitazioni visive di alfabeto Morse, mi perdetti dietro un branchetto di starne, beccandomi sette giorni di camera di punizione. Ben sei anni doveva durare la mia avventura sotto le armi, in Africa, Albania, Italia, sempre al fronte, in prima linea. Ma in quegli anni non abbandonai mai il mio fedele Browning a cinque colpi, che mi fu accanto ovunque, concedendomi il piacere di vari sprazzi venatori.