Libri, Riviste, Tradizioni... (27)
Tre giorni. Tre giorni di seguito nuovamente appostato dietro quelle rocce, ma niente. Non spuntava fuori nemmeno per scherzo; era troppo furba, anche per lui. “Papà, che facciamo se esce fuori?” disse Ciccillo, e Peppeniello, di rimando “ ‘A ‘nguaiamme !”. Giusto, la voleva proprio mettere nei guai, quella dannatissima scostumata. Oramai era una specie di regolamento di conti personale. Ciccillo comprendeva l’accanimento del padre, perché anche lui aveva visto lo sfacelo causato da quella manigolda, ma iniziava a stancarsi di ritornare, tutti i giorni, dietro quelle rocce per tendere un agguato. Secondo Peppeniello, le tracce portavano proprio in quel posto, infatti, davanti all’ingresso della tana c’erano piume di pollo, a mucchietti, che incastravano la ladra. Bisogna ammettere che aveva prove schiaccianti, soprattutto, dopo la baraonda causata all’interno del pollaio. Le galline, terrorizzate, non scendevano dai trespoli nemmeno a mangiare e, per terra, una gran quantità di uova e gusci formavano una frittata abbastanza grande da sfamare una banda musicale. Stavolta l’aveva fatta grossa, era proprio il caso di dirlo. Filumena non era nuova a queste imprese, anche se solitamente si limitava a piccoli e mirati furti, tali da non destare eccessivi sospetti, o almeno da non alimentare ulteriormente le ire degli inconsapevoli ospiti. Giuseppe, o Peppeniello, per la famiglia, l’aveva chiamata Filumena, in quanto gli ricordava il titolo di una famosa commedia di De Filippo, poi, se era una Martora e non una Maturano, a lui importava poco. Filumena era una Martora speciale; come la povera donna della commedia aveva una prole a cui teneva e si arrabattava per tirare a campare, anche se, a differenza della signora, non voleva sposarsi con nessun Dumminicu. Filumena era astuta, ma volubile, altera, indisciplinata, insomma emotivamente instabile, come tutte le martore. Ciò che la rendeva antipatica agli occhi di Peppeniello, era la sua innata attitudine al furto con scasso o con destrezza. La piccola nottambula si aggirava presso le aie in cerca di qualcosa da sgraffignare e riusciva sempre nell’intento di recuperare un po' di roba commestibile. Le massaie non gradivano queste visite di “cortesia” e sobillavano i mariti, incitandoli alla vendetta. Simpaticissime persone, traboccanti di derrate alimentari, tanto da farle guastare, gettavano via quintali di frutta, farina, uova, che, a furia di stare stipate, marcivano, ma guai se qualche estraneo perpetrava un furto! In tal caso, si sentivano in diritto di vendicarsi, senza pietà. I campi nei dintorni pullulavano di selvatici ed i pollai erano talmente pieni che non si sapeva più come sistemare le galline o dove vendere le uova, tant’è che spesso gran parte delle provviste finiva a concimare gli orti o ad ingrassare i già fin troppo pingui maiali. Peppeniello, solitamente, era un uomo riflessivo, ma la nenia della moglie, ripetuta ogni sera e quelle lamentele con la vocina stridula e petulante che gli martellavano il cervello, gli facevano uscire il fumo dalle orecchie, perciò: o cacciava Rosalina, la moglie, oppure cacciava Filumena. Il figlio, Francesco, che lui chiamava affettuosamente “Ciccillo”, condivideva in pieno la filippica privata tra il padre e la Martora, tanto da farsi suggeritore, sostenitore e stratega, pur di aiutarlo a vincere quella tenzone. La mattina avevano preparato tutto con cura. Davanti all’uscita, alla base di un albero con il tronco cavo, avevano collocato una gallina uccisa da poco, poi si erano spostati di una decina di metri ed avevano atteso. Niente da fare. Aspettarono per ore, ma la martora non si palesò. La manigolda non si fece vedere nemmeno per idea, ma quella notte accadde un fatto straordinario. Peppeniello si agitava nel letto, in preda agli incubi. Sognò di stare a tavola, in un giorno di festa e di apprestarsi a tagliare un bel cappone arrosto. Quando stava per affondare la forchetta, una furia si abbatté sul tavolo; arrivò Filumena, acchiappò il cappone fumante e poi saltò dalla finestra. Era turbato per quella visione e la mattina si svegliò con due occhiaie nere come quelle di un pugile suonato. Non ne poteva più. Desiderava metter fine a quell’inutile rappresaglia, perché preferiva andare a tirare ai rigogoli, sotto i ciliegi, o ai colombacci, presso le querce, piuttosto che perder tempo dietro una roccia e davanti ad un prato. La giornata non era iniziata nel migliore dei modi; ad una certa ora, Rosalina era rientrata a casa e si era fiondata nell’orto. “Peppeniieeeeeeeee! Peppeniellooooo; vien’accààààà”, aveva strillato sgolandosi. Il marito era corso come poteva .”Che c’è? Ch’è suciess?” aveva risposto. “Chella scustumata ‘e Filumena s’è pigliata ‘e picciune e cummara Felicita” disse la moglie. Lui, sgranando gli occhi “ ‘O vero ‘e pccune? E comm’ha fatt?”, e lei “ Nunn’oo saccio. Cummara Felicita m’haa ritto e ‘i l’aggio ritt’ che l’avimme a fa passà nù uaio a chilla là”. “Papà, mammà. Ma come ve lo devo dire che se parlate in dialetto non vi si capisce? Fatelo almeno, per gli extra-borbonici”, disse Ciccillo. “E’ vero fgo mo.Questa volta abbiamo sbagliato e ci scusiamo”. E ripresero a dialogare nella lingua corrente. “Insomma, si può sapere cos’è capitato?” disse Ciccillo. “ Filumena è stata nel pollaio di comare Felicita ed ha preso alcuni piccioni” disse il padre, “e mammà, vuole che le facciamo passare un guaio, non a comare, ma a quella scostumata di una martora”. Il padre si sedette, sudava come un cammello, perciò la moglie si avvicinò e disse “ Si può sapere cos’hai, Peppeniè?” e lui: ” Stanotte ho fatto un sogno e mi sento sconvolto”. E raccontò tutto l’accaduto. La moglie prese carta e penna e si fiondò in casa della comare. Dopo una mezz’ora ritornò tutta felice e porse il foglio al marito dicendo: ”Noi siamo persone oneste ma…povere! Lo sai questo. Comare Felicita conosce la smorfia a memoria; le ho raccontato quello che hai sognato e mi ha dato questi appunti. Ma prima ascoltami che ti spiego tutto. Eravamo seduti davanti alla tavola apparecchiata vero?Bene. Ottantadue, ‘A tavula ‘mbandita (La tavola imbandita). Tu eri seduto a capotavola? Allora ,ecco cosa vuol dire: Sessantuno, O’ cacciatore (Il cacciatore) . Poi è arrivata la ladra; quindi: Settantanove,’O Mariuolo (Il ladro), ed a quel punto siamo rimasti senza parole; dunque : Settantadue ‘A maraviglia (Lo stupore) ed infine, la manigolda è scappata, Diciassette, ‘A martura (La martora)” Rimasero a bocca aperta come tre babbioni. Peppeniello infilò una giacca e corse a perdifiato in città a cercare un banco-lotto, poi, presa la cedola della giocata, si avviò verso casa con la testa che gli scoppiava. Arrivato a destinazione mangiò un brodino di verdura, si mise al letto con la febbre e rimase lì, tutto il giorno e tutta la notte, perseguitato dalle visite di Filumena che piombava sulla tavola e scappava con il pollo. La mattina seguente, dopo aver inzuppato il letto di sudore, si lavò ed uscì di casa per ritornare al banco e controllare la giocata. Ruota di N.: 82-61-79-72-17 …Cinquina! Chiese al gestore se era tutto corretto e quello, dopo aver letto attentamente, si mise a sedere e subito tolse una bottiglia e due bicchieri da sotto il bancone e li posò tremante. “Sono quindici anni che lavoro qui, ma non avevo mai visto una cinquina secca. E’ incredibile. Ma, vi rendete conto che cosa vuol dire?” Quello lo guardò, sollevò il bicchiere e tracannò d’un fiato il vinello che il gestore teneva nascosto per le emergenze:” Veramente, non saprei. Gioco raramente. Stavolta mia moglie ha tanto insistito, anche se per me era una follia gettare questi soldi, con la miseria che abbiamo”. L’uomo dietro il banco lo osservò sorridendo e disse:” Sono contento che sia capitato a voi, perché da oggi non saprete più che cos’è la miseria”. Peppeniello ringraziò, baciò le mani dell’impiegato, pianse e poi scappò via. Corse a perdifiato e arrivò a casa balbettando. Raccontò tutto alla moglie e quella svenne prima di aver sentito la fine. Come poteva, la aiutò a rialzarsi, poi si avviò da comare Felicita, acquistò un pollo, lo cucinò per bene, lo infiocchettò e si recò con il figlio verso le rocce di Filumena. Depose il cappone davanti alla tana ed andò via. Non ritornò più a cercare la Martora e non ebbe problemi economici. Poté tornare a trastullarsi con i rigogoli e i colombacci ed ogni volta che la comare andava a raccontargli di una visita della martora e della scomparsa di uno o due polli, lui la faceva andare nel pollaio a scegliersi quelli che voleva e si metteva a ridere, pensando al regalo di Filumena.
Autore: Luca Davide Enna
LA SMORFIA NAPOLETANA : 82, ‘A tavula ‘mbandita (La tavola imbandita); 79, 'O Mariuolo (Il ladro); 61, O’ cacciatore (Il cacciatore); 72 , ‘A maraviglia (Lo stupore); 17, ‘A martura (La martora)
fermati, venti anni prima, con il profumo dell’aratro che sale piano e le stagioni che si alternano in quell’eterno affannarsi e rincorrersi , con il fanciullo che scalcia dentro di noi , con il corpo che invecchia e con la mente che ci riporta i nostri ricordi.
Autore: Luca Davide Enna
Solitamente stava acciottolato davanti alla porticina della sagrestia, sul limitare dell’orto della Canonica. Più che altro sembrava un sacco accartocciato o, al massimo, un “collo di volpe” un po’ troppo grande. Per lo meno poteva essere un incrocio con un ghiro, anche se il Don, lo dava per puro. Certo che, per essere un can-ghiro le caratteristiche le aveva tutte, almeno per quanto riguarda il sonno e l’abitudine di sotterrare le provviste. Fosse stato per il proprietario avrebbe preferito un can-guro, se non altro avrebbe avuto noie con i salti, ma solo con quelli... Quando si svegliava poi, gli pigliava la smania di nascondere qualunque cosa potesse fungere da provvista. Pane, carne, scorze e spesso anche selvatici. Padre Cleto alle volte era sul punto di “dar di matto”. Lo guardava, rigirava gli occhi al cielo e diceva: ”Mio buon Signore. Quali mai saranno le mie colpe, che mi hai affibbiato un cane così folle? Va bene l’estro dell’artista, ma qui si rischia di condurmi a perdere il lume della ragione. Qualche giorno quel cane, mi farà uscir di senno con le sue stravaganze. Non potevi farlo piovere a casa di frate Mauro, che ha il miglior Bracco della Diocesi e lui, invece, non distingue un frullino da un croccolone?”. Poi ci rideva sopra. In fondo sapeva che Napo era un ottimo cane da ferma, con un istinto innato ed una ferma solidissima. La passione per le beccacce e le pernici poi facevano il resto. La genealogia? Se si fosse dovuto “studiare” quand’era acciottolato nella polvere si sarebbe trovato da ridire, ma quando si alzava e si stiracchiava raggiungeva l’apice della signorilità e della bellezza. Un Irlandese. Irish setter lo chiamano da quelle parti, sì, in Gran Bretagna, la patria di Laverack e Llevellin. Certo la stirpe degli inglesi era più rinomata, ma l’eleganza e la maestosità di un Irlandese quando guida e poi, solido ferma il selvatico… Solo gli appassionati possono comprendere cosa provava padre Cleto. L’aveva chiamato Napoleone, Napo, quando aveva fretta. La cosa era nata così. Un bel giorno, avuto in dono il canino da un caro amico non sapeva che nome appioppargli. In quel momento stava leggendo un testo e trovò un passo nel quale si narrava di Napoleone Bonaparte, del suo anticlericalismo, e della diffidenza verso la Chiesa e le gerarchie ecclesiastiche. Infuriato disse fra sè: “ Se lui si è permesso di offendere la mia Fede in modo così ignobile, merita che il suo nome sia adoperato per chiamare un cane”. Ogni volta che qualche nuovo parrocchiano chiedeva spiegazioni sul nome del cane, la risposta era sempre quella, inequivocabilmente. Forse Napo aveva anche la follia dell’imperatore, perché tante volte partiva, sordo al richiamo, con una cosa in bocca, alla ricerca del posto sicuro dove nasconderla e così scavava buche qui e lì per l’orto, per la disperazione di padre Cleto che più di una volta vedeva scalzate le piantine di lattuga o di altri ortaggi. Padre Cleto, poi, non è che si chiamasse proprio Cleto, anche quello era un diminutivo del nome. Era originario del paesello della Canonica e da bambino era una vera birba. Dopo la conversione sperava di cambiar nome, ma il giorno della Consacrazione ebbe la felice sorpresa di scoprire che il Vescovo trovava serio e penitenziale il suo, Anacleto, perciò aveva deciso di non mutarlo, come spesso si usa in quei frangenti e fu così che si trovò costretto a tenerlo per omnia saecula saeculorum. Al ritorno in paese, dopo diversi anni, la gente continuava a chiamarlo con il diminutivo che usavano i fratelli e la mamma, per cui, padre Anacleto rimase per tutti padre Cleto. Nel paesello gli volevano bene, anche se da bambino aveva combinato alcune marachelle degne di entrare negli “annales ” della storia locale; come quella volta dello scherzo al Griso. Il Griso era il capo-muta della squadra dei cani da lepre più nota dei dintorni. Un simpatico segugio a pelo duro, fulvo, di proprietà di Nicola, un caro amico di Matteo, il babbo di Cleto. Ogni volta che Nicola tirava giù qualche bicchierino di troppo, iniziava con i panegirici del Griso. “Il mio cane è il migliore. Segue le peste della lepre come nessun altro. Riuscirebbe a scovarla anche se si mettesse sotto terra. Per la volpe poi… non perdona! Gli si attacca alla coda e non la molla nemmeno se finisce in capo al mondo, fin quando lei decide di rientrare per farsi ammazzare, solo per levarselo di torno. Un fagelo d Dio Ecco perché l’ho chiamato Griso. Pare uno dei bravi di Don Rodrigo. Combatte come un leone e vince sempre, con ogni cane, anche se quello è grande come un cavallo”. I bimbetti sentivano queste storie mentre rientravano a casa e facevano crocicchio per ascoltare Nicola che esternava quanto gli stava in petto. Un bel giorno Cleto disse agli altri ragazzetti: “ Vi fo vedee io che spagheo fo prendere al Griso e a Nicola. Gli metto tanta fifa che a correre si caverà da solo la pelle”. Così detto, racimolò una pelle di volpe che il babbo aveva scuoiato il giorno prima e si preparò al misfatto. L’indomani, atteso che il babbo uscisse di casa, lo seguì di nascosto e quando vide che tutti erano appostati ed i cani pistavano alla grande, fece un giro e con uno stratagemma si portò a ridosso del Griso e lo chiamò. Quello, che conosceva il piccino, gli fece festa tutto contento ed appena gli fu vicino fu un gioco da ragazzi acchiapparlo e assicurargli bene la pelle di volpe alla coda. Legò la stessa con una forcella e fece in modo che in un ramo vi fosse legata la coda della volpe e nell’altro dei campani di vacca. Fatto questo diede il via alle danze scacciando il Griso in malo modo sicché lui, cai, cai, partì filato nella macchia e per il bosco e si portò appresso la muta eccitata dallo scagno. Un finimondo, ci misero quasi una giornata per fermare i cani, finché il Griso, sanguinante e stremato ritornò verso casa e corse per la piazza del paese con i bimbi e la gente che ridevano e gli correvan dietro. L’arrivo dei componenti della squadra completò l’opera. Il manigoldo venne scoperto quasi subito a causa della pelle di volpe con un orecchio forato da un pallettone, il giorno prima proprio da Matteo e la punizione fu esemplare. Fischiarono le cinghiate per tutto il tragitto, fino a casa; poi Cleto fu costretto a pulire il canile di Nicola per un mese, con il compito doppiamente ingrato di nutrire i cani e portarli a spasso, a guinzaglio, nei giorni di “silenzio”. Ancora oggi se qualcuno vuol far diventar serio padre Cleto e poi vuol farlo sorridere, basta narrargli dello scherzo a Nicola ed al Griso per vederlo mutar volto. Nonostante quello ed altri episodi minori, i paesani erano affezionatissimi a padre Cleto e quando lui, alla fine delle sere di preghiera, si riuniva in crocicchio e raccontava le sue avventure o le follie di Napoleone, lo stavano tutti ad ascoltare volentieri cercando ognuno di dispensare consigli sull’addestramento o citando i vecchi esperti o addirittura i mostri sacri del dressaggio, da Laverack a Delfino. Ma non vi era nulla da fare. Un cane folle come quello era impossibile da domare. Si sperava solo di trovarlo in buona giornata e poi ci si affidava al buon Dio. Una mattina partì presto, perché un vecchio legnaiolo gli aveva detto che vi era stata una consistente entrata di beccacce la notte precedente e siccome proprio l’indomani aveva deciso di fare una capatina, sfruttò la dritta e si recò sul luogo indicato. Arrivato dopo alcune ore di cammino al fontanile di marmo si sedette, controllò che tutto fosse in ordine, bevve un paio di sorsi, fece abbeverare il cane e poi lo sciolse. Quello partì come una furia, come fosse stato inseguito da un orda di vespe impazzite. Padre Cleto, si alzò di scatto, si mise le mani nei capelli e pensò di avere trovato la giornata sbagliata, per cui, a testa bassa, aspettò che il cane rinsavisse e si sedette nuovamente sul bordo della vecchia fontana. Dopo una decina di minuti, il grosso campano appeso al collo di Napo si era messo a tacere, almeno cinquanta o più metri in basso . Sulle prime pensò ad una sosta “fisiologica” in seguito alla bevuta nella fontana, poi, dopo vari minuti di silenzio prese a scendere verso la “Reggia dei Brembani”. La reggia dei Brembani era chiamata così a causa delle persone che l’avevano costruita, provenienti dalla Val Brembana. Vennero lì tanti e tanti anni prima per cercar fortuna con il taglio della legna. Costruirono una casipola, tutto sommato carina , sulla costa di un gigantesco canalone di bosco, ai confini di un terreno in leggera pendenza. In paese, all’inizio, li guardavano con diffidenza, perché era gente che parlava poco e lavorava molto. Erano silenziosi e ancor meno confidenti. Se poi si doveva menar le mani, non si tiravano indietro. Alti come marcantoni e con quelle mani che sembravano incudini, erano capaci, con quattro sberle, di mettere a tacere anche il più energico dei provocatori. Perciò, un po’ per l’invidia ed un po’ per la mancanza di frequentazione, in paese, per diverso tempo li tennero a debita distanza. Si diceva che abitassero in una reggia, come fossero nobili , isolati dal mondo, e da lì nacque il nome della loro dimora. Come spesso accade, dopo un periodo più o meno lungo avevano finalmente stretto le loro amicizie e dal momento che erano burberi ma in fondo gran brave persone, erano stati accolti con affetto e si recavano con frequenza in paese, pur abitando sempre nella loro casa che tuttavia mantenne il suo nome originario. Passata la reggia dei Brembani ed arrivato alla siepe di confine Napo si arrestò immobile, fisso, con la pupilla dilatata e le narici a mantice, nell’atto di aspirare l’effluvio. Stette così un tempo immemorabile e poi iniziò lentissimamente a guidare nuovamente e giù lungo la costa verso il centro del canale; per un attimo ebbe un ulteriore rallentamento all’altezza del vecchio castagno , poi riprese con sicurezza e si fermò nei pressi della bicocca bruciata. A quel punto sembrò entrare in catalessi. Se il vecchio Nestore fosse stato lì davanti sarebbe rimasto a bocca aperta e con la pipa in mano ad ammirare la scena, come faceva spesso quando trovava qualcosa di veramente interessante. Il vecchio Nestore aveva consumato una vita alla bicocca e, dopo un tempo non indifferente impegnato a fare il carbonaio, aveva deciso di costruirsi una piccola casipola, bassa bassa, per riposarsi nei momenti di “stanca”. Un bel giorno, rientrato in paese per il gran freddo, aveva dimenticato il braciere acceso dentro la casetta e, com’è, come non è, un lapillo balzò sul pagliericcio che usava per riposare ed in poco tempo la casetta prese fuoco. Al suo ritorno, non si scompose più di tanto. Si fermò ad ammirare il disastro, cavò dalla tasca destra la pipa, da quella sinistra il tabacco ed iniziò a riempire, a bocca aperta. Dopo un po’, finita l’operazione, prese uno stantuffino, pigiò bene il tabacco, cavò un pezzo di carbone ancora ardente dalla casetta ormai bruciata, accese la pipa tirando grandi sbuffi grigi al cielo e disse: “Mah! Si vede che doveva andar così. Si vede proprio che devo rientrare a casa a riposare. Lo dice sempre mia moglie. E dire che più di una volta l’ho ripresa.” E da quel giorno, ogni volta, finito il lavoro, andava a riposare a casa, che poi era poco distante. In seguito ritornava sul luogo, controllava che tutto fosse in ordine, dava gli ultimi ritocchi alla carbonaia e poi faceva rientro per la sera. In quel momento il vecchio Nestore non era sul posto, altrimenti una fumata di pipa non gliel’avrebbe levata nessuno, per alcun motivo. Frattanto, una catasta di frasche con un intrico di rami ed edera sembrava attirare l’attenzione di Napo. Padre Cleto si diresse con circospezione verso quel punto, cercando di fare meno rumore possibile ma, arrivato ad una ventina di metri, notò che il cane aveva ripreso la guidata ed allora cercò di assecondarlo scendendo giù nella costa verso il bordo del fiume. Napo camminò circospetto, cercando di farsi più piccino, se era possibile. Il calcio della vecchia Bayard raschiava rovi e pruni e li spostava, spinto dal nervosismo e dall’ansia di padre Cleto. L’umidore dell’ambiente, il marciume delle foglie, per lo più attutivano i rumori, ma, la guazza era insopportabile, per cui , dopo quel non brevissimo tragitto , cane e padrone erano completamente bagnati fradici, ma questo non li spaventava affatto. Napo, saltato il tronco cavo era sceso più in basso, puntando diritto sulla “pozza di Carlino” e di lì si era acquattato lungo il bordo, seminascosto tra l’erba di fiume ed i cespugli della bordura, cercando di dare nell’occhio il meno possibile. La pozza di Carlino era costituita da un piccolo “largo” ad un certo punto del ruscello montano, ben noto a padre Cleto ed agli abitanti del paese, non solo per la pesca delle trote, ma anche perchè, un certo Carlino Petroni, figlio di un altro amico del babbo di padre Cleto, tale Amedeo Petroni, un bel giorno aveva combinato una marachella così grossa che per poco non finiva in tragedia. Tutto si era concluso per il meglio e quindi era rimasta la leggenda, in paese, ma lì per lì il fattaccio era proprio grosso. Carlino, vedendo che i grandi rientravano con delle belle trote pescate per lo più a lenza o sbarrando la pozza con una rete a sacco e poi recuperandone il contenuto, volle tentare l’impresa pensando che, se i pesci erano tramortiti, sarebbe stato più facile recuperarli. Fu così che si procurò un barattolo di solfato di rame, lo miscelò con un'altra porcheria e dopo avere accuratamente tappato la strettoia della pozza con alcuni rami rovesciò il tutto all’interno. L’acqua divenne verde, poi blu, poi azzurrina con riflessi metallici. Dopo un po’ iniziarono a salire a galla i pesci, le rane, le bisce d’acqua, le anguille, le tartarughe e quant’altro popolava quella pozza e gran tratto del fiume. Resosi conto dell’enormità del guaio fuggì e cercò di dare l’allarme ma per le tre capre di Vittorio, la mucca della Guendalina e ben nove delle oche di Giancarlo non ci fu niente da fare, vennero trovate lungo la pozza stecchite e secche come legni. Per giorni e giorni fu vietato alla popolazione di avvicinarsi al fiume e soprattutto a quel tratto ed a quella pozza, poi l’allarme rientrò e si potè ritornare. Carlino venne punito in maniera esemplare. La mattina doveva andare ad aiutare Vittorio a mungere le capre e portare il latte alla latteria. Poi si doveva recare a foraggiare le vacche ed i vitelli, ed immediatamente dopo si recava a nutrire le oche ed a cambiare loro l’acqua della tinozza. Una fatica sovrumana, ma se Carlino avesse dovuto considerare le diecimila cinghiate che gli aveva promesso il babbo se non avesse svolto quei compiti per due mesi, in fin dei conti quello era un peso sopportabilissimo. Napo intanto continuava a star fermo rimuginando sul da farsi, mentre padre Cleto gli stava d’appresso tallonandolo con circospezione. Davanti a loro la bordura delle tamerici nascondeva un tratto di fitti piantoni che sicuramente facevano da rifugio a qualcuno. Presa una decisione, Napo si avviò strisciando nell’acqua come un serpente, guardingo ma risoluto , finché, arrivato sull’altra sponda, senza nemmeno scrollarsi , si irrigidì, nuovamente in ferma, mentre tremava come una foglia a causa del liquido gelato ed il corpo evaporava per lo sbalzo di temperatura. Fece per muoversi e si udì come lo sbattere di un sacco ed un : “Ooooh!”, dietro di loro, nella costa da cui erano scesi. Frate Mauro, con due confratelli, non aveva resistito e,viste le prime mosse, dall’alto, aveva legato il suo Bracco e si era seduto , estasiato , ad ammirare quel cane cacciare come un grande campione. Il migliore. Aveva avvertito i suoi confratelli.: “Il primo che fiata o spara un colpo ad un palombaccio dovrà fare penitenza per un mese. E’ un peccato rovinare una cacciata così ”. Poi si era tradito lui stesso perché non riusciva a trattenere l’emozione per quella vista. Grande esperto ed appassionato di cani aveva un Bracco italiano di taglia leggera , considerato il migliore nei dintorni, ma davanti a quella scena era rimasto senza fiato ed aveva degradato, d’ufficio , il suo pur ottimo cane, al secondo o al terzo posto. Padre Cleto si voltò, vide gli spettatori, volse gli occhi a cielo, si asciugò la fronte e si preparò agli eventi, stringendo sempre più forte il calcio della Bayard. Napo riprese a guidare e dopo altri trenta metri si bloccò, come indeciso. Aveva una fitta siepe di pruni, salsapariglia e mirtilli davanti e per riuscire a proseguire doveva necessariamente aggirarla o passarci dentro, cosa non facile in entrambi i casi, perché: primo, la siepe era molto lunga, da un lato e dall’altro e secondo, era molto fitta, impenetrabile. Napo si guardò attorno, fece alcuni passi indietro, prese la rincorsa e saltò la siepe a piè pari, volando così alto che frate Mauro si lasciò scappare un : “O Signur!” e subito si segnò, credendo di aver commesso peccato. Padre Cleto sentì l’esclamazione, si volse, scambiò lo sguardo con il confratello, portò l’indice verso il naso e disse:”Ssssssssst!”, come a far capire che era il caso di fare silenzio assoluto. Nel frattempo Napo era arrivato a ridosso di un gruppetto di alberi giovani ed era rimasto in ferma secca, in completo silenzio, con il campano che aveva appena inviato l’ultimo sonoro eco nel bosco grondante d’umidore. Padre Cleto si appressò e nel farlo ruppe un rametto rinsecchito e questo bastò a far sì che un ombra si levasse fragorosamente da terra e cercasse di porsi tra il cane ed una macchia di sporco più fitto. Fu un istante, un boato sordo, una leggera nuvola di fumo ed un fagotto di piume che scendevano leggere portate dalla brezza. Napo era scattato e con grande sorpresa di frate Mauro, ma soprattutto di padre Cleto, era tornato, tutto tronfio, con la preda in bocca, perfettamente conservata, senza sbavarla , riconsegnandola al legittimo proprietario. In pochi istanti il terzetto di frati fu vicino al padre Cleto elogiandolo per l’ottima cattura e magnificando le doti del cane, mentre lui si scherniva e Napo accettava complimenti da tutti non lesinando slinguazzate bavose agli astanti e godendosi il suo momento di gloria. Terminata la mattinata, fecero una sosta e così padre Cleto volle nuovamente provare le doti del suo splendido cane lanciandogli un “oggetto” da riportare. Quella prodezza fu subito premiata, ma dato il risultato dell’ ”operazione riporto”, è augurabile che gli oggetti piantati nel terreno diano buoni frutti e crescano rigogliosi, perché, da quel giorno, padre Cleto non riuscì mai più a ritrovare il luogo di sepoltura dei suoi guanti grazie alle magnificenti doti di riportatore possedute dal mitico Napoleone.
Autore: Luca Davide Enna
Ma oramai, anche quella era una storia chiusa. Il popolo è severo nel giudizio, così com’è esaltato nell’acclamazione. Nell’incontro tra il giovane scrittore Ugo Foscolo e Giuseppe Parini, l’anziano poeta diceva: ”L'umanità geme al nascere di un conquistatore; e non ha per conforto se non la speranza di sorridere su la sua bara”… In sintesi un giudizio lapidario che aveva portato i responsabili delle tragiche e folli scelte, dai fasti di piazza Venezia al tragico epilogo di Piazzale Loreto. Anche un “vecio” come Giuanin aveva dovuto fare i conti con la storia e cercava disperatamente di farli pareggiare. Si ripeteva che, in fondo, aveva sempre fatto il suo dovere, anche quando aveva chiuso un occhio per far sì che qualche ragazzo scampasse dalla prigionia, come quella volta del “biondino”. Giacomo, detto il “biondino” era diventato un avversario, sebbene all’inizio fosse solo un povero disgraziato scappato ai rastrellamenti assieme ad una manica di sbandati. Lui, Giuanin, li aveva beccati nascosti in una stalla e, prese le generalità, sulle prime aveva pensato di consegnarli, ma poi, spinto dal rimorso e conscio che quei ragazzetti avevano su per giù l’età del figlio, li aveva fatti nascondere e aveva indicato loro il modo per scappare sui monti. Alcuni di quei ragazzi si aggregarono alle truppe di liberazione ed al momento della resa dei conti andarono a rastrellare quanti più “nemici “ potevano. Tra essi vi era un gruppo che , per contrapposizione all’esercito “regolare”si chiamava: le “Penne rosse”. Erano spietati e non facevano prigionieri. Il biondino assistette una volta ad un processo sommario e questo bastò a fargli capire che non era giustizia, ma solo vendetta quella applicata dai suoi amici, per cui, prese la sua strada. Tutto capitò per caso, un giorno. Durante uno degli ultimi assalti catturarono un piccolo drappello di Penne nere che rientrava presso le linee difensive. Fecero un breve processo e decisero di metterli al muro l’indomani mattina. Il biondino riconobbe subito il Giuanin, ma fece finta di nulla, per non compromettere se stesso ed i prigionieri. A notte inoltrata, poi, liberò tutti e si mise in fuga per non subire ritorsioni. Al momento dell’addio guardò il “vecio” e gli disse: “Vi ho reso il favore, ma vedete di non scontrare nuovamente i vostri scarponi con i miei. I vostri amici crucchi mi hanno fatto orfano e vi salvo la vita solo per rendervi pariglia, come avete fatto voi quando ci incontrammo. E adesso, ognuno per sé e Dio per tutti”. Si girò di spalle e scomparve nel buio. Da allora non si videro più. La guerra finì come finì e la liberazione durò ancora alcuni anni, perché con qualche scusa diversa, c’era sempre qualcuno che si voleva “liberare” di qualcun altro…. I luoghi delle battaglie divennero silenziosi e la natura riprese possesso dei suoi territori. Con difficoltà e laboriosità risanò le ferite e fece crescere un manto di erbe e fiori nelle fosse lasciate dai mortai . L’acqua levigò i lati delle trincee rendendole meno aggressive e cespugli ed arbusti abbellirono gli avamposti abbandonati. Sulle cime regna sempre un silenzio maestoso, rotto di quando in quando dai richiami di qualche rapace o dai versi degli altri animali montani. Da tanti anni Giuanin conosceva quei luoghi ed i richiami e gli erano familiari, ma per diverso tempo era stato lontano a causa delle umane vicende che spingono un uomo in divisa a difender la Patria, anche in nome di un’idea sbagliata. Si consolava solamente durante le giornate trascorse in mezzo ai boschi, tra le fronde, a contatto con gli alberi che lo avevano visto crescere: in silenzio, da solo e con la suo Birba, una pointer bianco-nera …. Un suo caro amico, Gianmarco, l’aveva recuperata presso un’aia di contadini, dopo essersi informato dell’origine e degli eventuali proprietari. Aveva ottenuto la risposta che in quella fattoria c’erano già troppi cani da mantenere e che quella cucciolata era di undici cuccioli, quindi, almeno quella canina era da “sbolognare”, così la prese con sé e ne fece dono al Giuanin. Erano gli ultimi due anni della seconda grande guerra, quindi, l’allevamento e l’addestramento della vivacissima Birba furono eseguiti, non senza difficoltà, ma, la sua naturale predisposizione e la grande volontà ne fecero comunque un esemplare eccezionale. Una volta concluso il conflitto mondiale, Giuanin passava più tempo possibile nei boschi insieme a Birba e cercava di unire l’utile di procacciarsi il cibo al dilettevole, di svagarsi, dopo gli anni passati a marciare “ per conto terzi”. Beccacce, starne, bianche, beccaccini, galli, non vi era alcun selvatico in grado di scampare al fiuto di quella cagna. Lei riusciva ad intrufolarsi dappertutto, incurante dei graffi. Il manto la faceva ritrovare in mezzo al fogliame, anche se aveva un collegamento istintivo al proprietario, perciò, dopo ogni esplorazione, ritornava alcuni metri indietro per valutare la posizione di Giuanin. Gli occhioni dolci e vispissimi, il muso umido e quelle orecchie nere e triangolari gli davano un aria buona, ma birichina, forse per quello il padrone l’aveva chiamata Birba. Tempo dopo, Giuanin aveva saputo che la cagnetta era di proprietà dei Tomelli, i contadini possidenti della famosa fattoria dove Gianmarco la trovò. Grandi appassionati delle cacce con il cane da ferma, in quel periodo i Tomelli non se la passavano benissimo, perché ricevevano spesso le “visite” degli imboscati che scendevano dai monti a fare rifornimento “gratis”, per la “causa” e poi le altre “visite”, dei crucchi, che ordinavano loro di fornire il cibo per la truppa. E’ logico pensare che in quella situazione precaria, una cucciolata non fosse proprio la benvenuta, per cui anche degli irriducibili come i Tomelli dovettero disfarsi di quasi tutti i cuccioli. Una volta, durante una delle periodiche discese notturne, un giovane di quelli scesi a caricare il cibo da portare su in montagna vide quei cuccioli e ne chiese uno, che, naturalmente i Tomelli gli donarono ben volentieri, per diminuire le bocche da sfamare. Giacomo, il giovane ribelle , detto il “biondino”, aveva una passione per la caccia ed una predilezione per quella razza canina, quindi portò con sé la cagnetta, la nascose presso alcuni conoscenti e riuscì, in modo più o meno rocambolesco, ad allevarla e ad averne cura. Dopo un paio d’anni, Daina, la cagnetta, era divenuta bravissima. Le starne, a valle erano abbondanti e l’incontro con le “brigate”, frequente. Una sortita con la Daina serviva a rifocillare la famiglia. Al rientro, cena e poi a nanna, salvo un paio di giorni a settimana durante i quali Giacomo si recava presso la sede del partito per ricevere gli ordini e gli eventuali “contrordini”. Lì aveva imparato chi erano gli infami, i profittatori e gli oppressori del “popppolo”. Lo avevano addirittura informato su quella che sarebbe potuta divenire la sua seconda patria, in caso di vittoria. Anche se lui non era convintissimo ed aveva, in fondo al cuore, ancora un debole per lo stemma Sabaudo cucito sulla bandiera tricolore. Il lavaggio del cervello era martellante e tutte le frasi ascoltate gli ronzavano in testa e riusciva a dimenticarle solo quando inseguiva la sua Daina. In fondo, anche Giuanin era così. Pure lui si era sorbito anni di adunate, comizi, frasi altisonanti. Il “nemiccco”, il “rapace d’oltralpe” (divenuto, in seguito, inspiegabilmente, “amiccco”…) , l’”Autarchia” ecc., erano stati , per anni termini d’uso quotidiano, poi, naufragati i destini d’Italia, proprio sul mare, si era pensato bene di riporre vessilli e gagliardetti nelle cassepanche ed affidarli al giudizio della storia, quella Vera, con la S maiuscola, non quella plasmata dai vincitori. Forse la differenza tra il “biondino” e Giuanin stava nel diverso atteggiamento che essi avevano nei confronti del mondo che li circondava. Il primo, nonostante l’imbottitura bisettimanale di “dottrina”, ma forte delle brutte esperienze di fine-guerra, cercava di seguire i dettami, anche se su alcuni temi rimaneva scettico; il secondo conosceva la dottrina del “ventennio” ed era profondamente deluso ed amareggiato per l’epilogo e per le tragedie che esso aveva procurato. Quella mattina Giuanin si era recato nel bosco di buon ora ed aveva fatto un ampio giro senza trovare nulla di significativo, tranne una grande varietà di funghi. Seguiva con attenzione la sua Birba , perché aveva l’idea che i selvatici fossero lì vicino e qualcosa nell’aria gli faceva pensare che sarebbe riuscito nell’intento di catturare anche il vecchio gallo di monte che inseguiva da giorni. Birba era una cagna incantata, simpatica nel nome e nobile nell’aspetto e negli ascendenti. Bellissima pointer bianco-nera, che scorrazzava maestosa ed a testa alta tra i rododendri e la sterpaglia come portata dal vento. Giuanin l’ ammirava estasiato, torcendo i baffoni all’insù e respirando grandi boccate di aria cristallina. Si spostò verso la valle per battere quella fiancata di macchia che dava sul lato del fiume e poi, magari proseguire tra i grani tagliati e le stoppie. Disceso per un pezzo e superato il fiume vide la Birba che risaliva arrancando e spariva, in alto dietro ad alcune macchie più fitte. Con calma si avviò verso quei luoghi e poi prese a cercare la cagna, dato che pensava fosse già ferma su qualche selvatico. Arrivato a poche decine di metri dalle macchie vide la cagna ferma con gli occhi scintillanti e lo sguardo fisso verso un punto. Si avvicinò con cautela, raggiunse uno spiazzo pulito e si appostò. Al via, la cagna “ruppe” e frullò un grosso gallo che piegò subito di lato con un fragore assordante. Giuanin lasciò andare una botta e corse a vedere l’esito della fucilata. Attese alcuni istanti ed ordinò alla cagna di riportare, ma quella , anziché fare come al solito, prese in bocca il gallo e si avviò per i viottoli, incurante dei richiami. Giuanin chiamò a gran voce, fischiò, ma per un bel pezzo la cagna non si fece viva. Poi arrivò ansimante, con un grosso fagotto in bocca e si sedette ai suoi piedi tutta contenta. L’alpino non riusciva a credere ai suoi occhi; era totalmente sbigottito. Prese la grossa lepre dalla bocca della cagna, la rigirò e notò i fori dei pallini dietro le orecchie. “Eppure sono convinto aver tirato ad un Forcello. Mi starò mica rimbambendo? Che razza d’imbroglio può essere questo. E tu, birba di una Birba; possibile che non dici nulla? Non ti volti al richiamo e poi, bella bella, mi riporti una lepre al posto del Gallo…Mica siamo al mercato, dove si cambia la merce che non ci va o dal prestigiatore. Questa poi, la devo raccontare giù a valle, anche se son certo che mi prenderanno per matto”. Intanto, poco dietro il crinale, il biondino cercava di capire come possa una lepre tramutarsi in un Forcello, cioè , infagottarsi, impiumarsi e cambiar forma. “Eppure ho sparato a terra, verso questa macchia di mirtilli. Quando ha sviottolato, sono certo che fosse una lepre. E’ meglio che non lo racconti alla “sezione” , altrimenti mi prendono per pazzo”. Frattanto la cagna aveva ripreso a correre ed ora “segnava” forte la traccia di un selvatico, fino a quando si bloccò in ferma. Giacomo si appressò e si preparò a sparare. Era quasi arrivato sulla sommità della collina e dall’altra parte c’era il canale del fiume. Partì un fagiano maschio stupendo, sul limite del tiro, che, preso in pieno dalla rosata, andò a cadere dall’altra parte della costa. Di lì a poco arrivò la cagna tutta trafelata, con una beccaccia in bocca. Nello stesso istante, il biondino, poco lontano, prese il fagiano tra le mani e, tremando, si sedette, fortemente preoccupato per la propria salute mentale. Dall’altra parte, la Penna nera, continuava a guardare la Birba e cercava di capire il perché di quella trasformazione, pensando che potesse essere avvenuta durante la caduta… “Eppure era un fagiano. Ne sono sicurissimo. Se non fossi certo di aver bevuto, penserei di esser brillo”. Diceva tra sé e sé, preoccupato, il “vecio” Giuanin. Arrivato sul crinale vide nuovamente la Birba puntata e si appressò curioso di sapere se quella magia poteva ripetersi. La cagnetta si arrestò di scatto e di lì a poco frullarono tre starne. Nel mentre sopraggiungevano alcuni colombacci; non curandosi di essi, Giuanin prese la mira e tirò ad una delle starne . Con sua grande sorpresa si accorse che contemporaneamente uno dei colombacci cadeva giù, lì vicino, oltre il crinale e di lì a poco arrivava la Brina a riportarlo. Decise di andare a sincerarsi su quell’episodio e nel frattempo legò la cagna. Percorsa poca strada si sentì chiamare. “ Voi” disse il biondino “ che cosa fate con la mia cagna al guinzaglio? E’ forse questa, l’usanza dei cacciatori di queste parti?”. “Quel gallo l’ho scovato io” disse Giuanin”. “E quella lepre che portate l’ha scovata la mia cagna“, rispose il biondino. “ Per qual motivo avete scambiato il vostro selvatico con il mio? E che volete dalla mia cagna, se la vostra vi scorrazza tranquillamente a fianco?”, disse l’alpino ; e il ragazzo di rimando: ” Guardate che io salgo da valle e da parecchia strada avevo la cagna che tracciava questa lepre, tant’è che l’ho sparata sotto ferma; quindi vi prego di non insistere con le vostre pretese. Inoltre la cagna che mi segue è venuta dall’altra parte della costa, somiglia alla mia , ma ha una macchia bianca in fronte, particolare non presente nella mia che ora voi tenete scorrettamente a guinzaglio” . “Allora voi avete preso anche il mio fagiano e la mia starna”, disse la Penna Nera; e la penna Rossa , rispose : “ E voi per vendicarvi avete preso pure la mia cagna”. Giuanin si sentì offeso nell’orgoglio e si avvicinò al giovane togliendosi il cappello, pronto a redarguirlo a dovere. L’altro si fece avanti impettito e quando furono a pochi passi rimasero sbigottiti, a bocca aperta come due vitelli in cerca di latte. ” Ma, voi, lei, tu. Non è possibile” disse il vecio. E l’altro, sbigottito: “Tenente colonnello…mah, ma, non si era rimasti dell’accordo che io e Voi non ci si doveva più incontrare?”. Giuanin guardò il giovane e disse : ”Come sei cresciuto, biondino. Sei diventato un uomo. Quasi non ti riconoscevo”. Il biondino lo guardò, buttò il fucile a terra e corse ad abbracciare la vecchia Penna nera. Piansero e ricordarono quei giorni. Giuanin disse: ”Sono contento di averti fatto scappare, mi ricordavi mio figlio e non mi sarei mai perdonato di farti del male”. E, il biondino: ”Io invece vi ho fatto scappare perché mi ricordavate mio padre e, ho pensato molto a lui ed a voi in questi anni. Lui sarebbe stato fiero del mio gesto, anche se io all’inizio ero poco convinto”. Il vecio lo guardò col viso sereno e disse: “La guerra non è riuscita a distruggere i nostri pensieri buoni e questo mi sembra un bel risultato. Tanti morti, tante vite, non sono finite invano, ma servono perché quelli come me e come te costruiscano una Patria migliore”. Dietro ai due si stagliava alta la cima della montagna ed il silenzio faceva da contorno alle loro voci ovattate. Parlarono, discussero, raccontarono fatti ed episodi, poi si fermarono a guardare i cani che scorazzavano felici e rimasero in silenzio pensando alle vicende passate, agli orrori vissuti, al loro coraggio di stare da una parte o dall’altra, entrambi, per la scelta che ritenevano migliore per se stessi e per gli altri ed al nuovo futuro che si prospettava davanti a loro, sicuri di affrontarlo, con coraggio, per costruirlo insieme.
Autore: Luca Davide Enna
Provo a pensare a qualcosa di piacevole, troppo facile, queste sono cose che succedono solo nei film, l’insonnia è altra cosa. È una smania sottile che ti parte da dentro e ti corrode come farebbe una goccia sulla pietra. Perché non ci avevo pensato, la goccia! Tac, tac una cento mille… Macché, il tempo passa, al ritmo della sveglia, che domani inesorabilmente mi chiamerà al rapporto, che le importa se non ho dormito?
Mi ricordo, quando l’insonnia aveva un’altra matrice, meno adulta e più ingenua. Erano i tempi in cui a tenermi sveglio era l’ansia del giorno dopo, di caccia s’intende. Dubbi e domande che mi maceravano l’anima, montavano dentro al ritmo dei frulli che l’immaginario costruiva nella mia mente. Cose pensate, intuite e sconosciute. Leggi magiche, imponderabili che gestivano folate di passo di cui non si aveva ricordo umano. Allora, a fine Gennaio, potevo sperare di incappare in un passo di allodole, mentre la palude, solo per me, ad onta di quanto mi assicuravano i compagni più esperti, si sarebbe riempita di becchi lunghi. Così, quasi per magia e per ingenua inesperienza.
Il sabato sera, lasciavo Roma in compagnia di Angelo per raggiungere quel posticino, proprio sotto al castello di Federico II° di Svevia, che a Novembre ci aveva regalato tanti tordi. Che importa se eravamo a Gennaio o magari a Febbraio, noi si era lì, convinti, che i tordi sarebbero passati.
Oppure eccomi a bordo di una fiammante spider, vagare in un caldo giorno d’apertura, tra l’Abruzzo ed il Lazio. Non avevo trovato, o forse non si era fatto trovare, l’amico di Avezzano che mi doveva accompagnare a caccia di starne!!! Decisi che l’inconveniente non mi avrebbe rovinato la giornata e puntai il muso della macchinetta verso il Viterbese, per andare a scoprire una riserva, in cui avevo comprato una mezza quota, per il mio giovane bracco italiano, che nel frattempo non faceva altro che sbavare e vomitare in quella specie di loculo rappresentato dai due striminziti posti della Triumph. Roba da bar, non da cacciatori, e non ci volle molto a convincermi su quella strada dissestata che da Civitella Cesi, carraccio carraccio, arrivava alla Vaccareccia. Fui preso dal panico, andare o tornare sui miei passi? Cosa c’era dietro l’ennesima curva? Ma certo, mi ripetevo la mia riserva, ed andavo fin quando il mezzo più adatto a piazza del Popolo che ad una carrareccia della Tolfa, mi impose la resa.
Accostai l’auto, accanto ad una vecchia cinquecento giardinetta, sulla quale c’era seduto un tipo strano, che doveva essere un cacciatore vero, senza fronzoli e griffe particolari, basso con uno di quei maglioncini a tre bottoni, eravamo a settembre, che non si trovano più nemmeno sulle bancarelle. Era lì che aspettava i suoi segugi, e nel vedermi rimase interdetto, non saprei dire se per il cane, che assomigliava più ad un vitello, per la macchina o per il soggetto che la guidava.
Quattro parole per capire con chi aveva a che fare, ed un gesto per scroccarmi una sigaretta, poi un’altra ed infine, quando non aveva più bisogno di me perché nel frattempo i suoi cani erano rientrati, girò i tacchi e si dileguò, con la sua traballante macchinetta lasciando me, la spider ed il bracco nella polvere.
Ma sarebbero stati di lì a poco altri vecchi cacciatori a svezzarmi: i facchini delle cooperative dei Mercati Generali di Roma, che quando non prendevano l’appalto per scaricare un’enorme TIR proveniente da qualche sperduto campo del Sud Italia, si raccoglievano intorno a quella macchietta di Pratica di Mare - la “colonetta” era tutta esaurita fin dalla sera precedente - a cuocere le patate sotto la brace per aspettare l’alba e con lei il primo zirlo.
Mi sopportavano, come del resto tolleravano Rama, la mia bracca, che per un pezzo di quella patata si sarebbe fatta ammazzare, e che mal volentieri abbandonava il tepore del fuoco e la speranza del cibo, per accompagnarmi verso quell’angoletto allagato tra un fosso e l’altro, che di tanto in tanto mi regalava un beccaccino o un porciglione, e che io battevo a prescindere dal periodo, beata inesperienza, sempre con lo stesso entusiasmo.
E proprio ai margini di quel piccolo insieme scomposto di lecci e macchia mediterranea, che un giorno vidi entrare i merli di passo in branco, io che già da agosto li perseguitavo lungo il Tevere e che credevo che quanto mi raccontavano i “cacciatori delle patate” fossero storie di vecchi.
Una lama di luce si fa spazio tra le fessure della serranda e va a colpire, neanche a farlo apposta, i miei occhi, un merlo chioccola disarticolato, mentre un camion della Nettezza Urbana arranca ansimando nella via sottostante, come la mia vecchia Rama, cui non ho voluto dare il disonore di essere portata in braccio a casa, quando negli ultimi giorni il suo povero ingenuo cuore batteva meno intensamente della sua paura. Mi fermavo con lei dopo pochi gradini e mi sedevo accanto, accarezzandole il testone e parlandole di noi, della nostra storia, della nostra caccia, fino a quando, l’affanno è stato più forte del cuore che gli è rimasto sull’ultimo respiro.
La mano della mia donna mi sfiora la schiena, adesso è il suo respiro che si allarga sulla mia guancia, un gesto d’amore ha sconfitto la notte, mentre un cucciolo che si lamenta in una cuccia troppo grande per lui, sconfiggerà la mia solitudine.