Natale

Dallo spiraglio della porta che Norma ha lasciato socchiusa per non disturbarmi, intravedo i miei ospiti con altri amici giocare a carte, tra fumo, maledizioni e vino mentre nel camino tira un fuoco che arde con avidità.
Rannicchiato sul lettino che Rocco usa come avamposto per accorrere alle stufe delle serre, quando il termometro va sotto zero, resto combattuto tra uno spicchio di cielo stellato che traspare dalla finestra e la gaiezza conviviale della compagnia seduta intorno al tavolo.
La mia bracca dorme saporitamente distesa davanti al fuoco dove impertinenti gatti di casa, strinandosi il pelo, le contendono il calore.
Decido di concedermi ancora un po’ di riposo e di riflessione, ne ho bisogno, con tutto quello che mi è accaduto in questi mesi. Mia moglie mi ha lasciato, perché ha sentito che non ce la faceva più a sopportare una nuova stagione fatta di lontananze, non solo fisiche, e discretamente, come sua abitudine, se n’è andata lasciandomi con il mio rimorso.
Per non permettere alla tristezza di sopraffarmi ripercorro la giornata appena trascorsa; i ricordi e le emozioni si accavallano fino ad ordinarsi con esatta cronologia.
Vigilia di Natale: Rama, come al solito, si è comportata bene, incrociando tra giunchi e falaschi incurante delle gelide acque dell’acquitrino. Un beccaccino pasturone senza troppi complimenti, dopo averci fatto passare, era schizzato via confondendosi tra torba e cielo. La cagna lo aveva inseguito con rabbia, quasi consapevole di essere stata beffata.
L’attraversamento del canale dell’idrovora è un’impresa rischiosa, meglio aggirarlo dal ponte di legno. Ponte, si fa per dire, una pertica appoggiata tra le rive ed un’altra più in alto a mo’ di passamano, alla vecchia maniera. Transitare sopra queste passerelle improvvisate è sempre un terno a lotto, qualche volta si cade, inciampando sul cane o scivolando sul precario appoggio. L’importante è scaricare sempre il fucile per non rendere ancora più drammatico l’eventuale bagno.
Non vedo la bracca, ma la intuisco in mezzo alle canne grazie ai pennacchi che si piegano al suo passaggio come per riverirla.
Un uccello nero si leva poco più avanti; è una gallinella, una pollastra come la chiamano da queste parti. La fermo di prima canna, quale miglior regalo stasera per i miei ospiti. Buffa questa gente, tratta i fagiani come galline, ma esalta culinariamente i ralli, contenti loro!!
Una distesa di cannuggiole tagliate basta a far cambiare marcia alla bracca che adesso, seguendo una flebile bava di vento, mi porta dritto dritto sul bandolo di un‘emanazione sicura. Mi accosto quasi in punta di piedi, pardon di stivali, alla cagna che fremente, in plastica ferma, mi indica la direzione. Lo schioccare di due baci elettrizzanti, viene interrotto da una precisa coppiola. Nella palude ritorna il silenzio.
Una bufala ci segue con lo sguardo senza abbandonarci un attimo mentre, goffamente, attraversiamo il giuncheto terribilmente urticante. La bracca sembra non accorgersi delle punte che le stanno trafiggendo la pelle e, sicura come un treno, arriva sul chiaro giusto in tempo per dichiarare “tana” ad una coppia di alzavole che indispettite dalla presenza estranea colonnano verso il cielo. Inutile azzardare tiri lunghi, con il risultato di ferire gli animali che andrebbero a morire lontano. Meglio ammirarli mentre riprendono il vento e si affilano al lago alla ricerca di luoghi meno disturbati, per nulla infastidite dalle schioppettate inopportune del solito matto che spara comunque, e a qualsiasi altezza.
Bufale permettendo ci distendiamo sotto il tamerice posto a guardia della piscina della vecchia idrovora. La colazione viene divisa da buoni amici, Rama si struscia pesantemente sull’erba mentre io come consuetudine sistemo il carniere, ammirandone la policromia. Liscio le penne per ordinarle, rifuggendo da quel triste costume di molti cacciatori che sfigurano i selvatici ammassandoli disordinatamente dove capita, buste di plastica e simili, con il risultato di svilirne l’armonia, che se pur spenta nell’ immobilismo della morte va sempre rispettata.
Un cane, seguito dal cacciatore, avanza dalla parte opposta del padule, battendo con attenzione le luccicanti guinze tra i “becchi di flauto”. Gli mostro il panino in segno di offerta, ma dopo avermi sorriso continua ad ispezionare il canneto tagliato. Il suo cane è ora in ferma e lui con calma lo affianca. Parte un beccaccino, anch’esso materializzatosi dal nulla, che viene centrato in pieno da una precisa stoccata. Come d’incanto, così come era comparso, invece di cadere a terra l’uccello si dissolve in aria. Resto con il boccone tra i denti attonito,mentre lo strano cacciatore si avvicina e si siede accanto a me. Ho voglia di scappare ma resisto. Siamo soli, e mentre i cani si scambiano i soliti convenevoli, fatti di annusate e sospettosi girotondi, decido di rompere la tensione:
“Buongiorno, posso offrirle un pezzo della mia colazione?”
Nessuna risposta arriva dal misterioso personaggio che dopo un ennesimo largo sorriso scompare insieme al cane lasciando sul terreno un libro aperto.
Mi alzo di scatto spaventassimo, stavolta scappo, poi cedo alla curiosità, prendo il libro tra le mani, e leggo; sono riflessioni che suonano come un testamento spirituale: “Nelle mie ventotto licenze quanti Natali, ho passato in casa a godere le gioie della famiglia, giocando alla tombola o passeggiando colla moglie sino all’ora che anche i caffè in città chiudono i battenti e tutti si mettono a tavola a mangiare il tacchino? Forse due o tre e bisogna pure che facesse un tempo da lupi per impastoiarmi tutto il giorno tra le mura domestiche, con perdizione dell’anima per via delle bestemmie contro gli elementi e chi per essi, e a scapito della pace familiare. Non mai come la vigilia e il giorno di Natale la natura cade in grembo alla mistica pace: il villano, uso anche nei giorni di festa a visitare il campicello, per dare l’ultima mano alla bisogna lasciata incompiuta il giorno avanti, (...) il giorno di Natale non si strania. E ogni rumore è spento: non colpi di fucile, non rotolio di carri, o richiamo di gente o latrare di botoli: solo, sull’ali del vento, vengono rintocchi gravi delle maggiori campane. (...) Caro Floch! Vedi soli e liberi come sempre, tutto il mondo è nostro. Ecco sotto di noi l’umanità con le sue miserie. (...) Rientro in città che tutte le luci sono accese e gli uomini dabbene passeggiano con la famiglia, pigri, insonnoliti e col fiato grosso, più goffi ed ebeti del consueto per soverchio lavorio del ventre. Mi guardano e mi compatiscono, come uno spregiudicato che viva fuori dalla legge; e non sanno, gli infelici, che anche oggi, e più degli altri giorni, perché la solitudine e la pace erano più grandi, io sono stato a colloquio con Dio, anche se l’ho bestemmiato.”
Chiudo il libro delicatamente, sulla copertina ingiallita dal tempo, un disegno infantile ritrae un carniere aperto su una vecchia doppietta e in calce il titolo: Cacciatori si nasce di Eugenio Barisoni 1932.
Una mano lieve mi sfiora il viso, è Norma che è venuta a svegliarmi per invitarmi a tavola. Questa notte di vigilia ho voluto passarla con loro, amico tra gli amici, e con la mia bracca, che a dieci anni mi regala ancora emozioni. La guardo fisso nei suoi occhioni dolci a domandarle: “Abbiamo forse sognato?”
L’allegria di questo piccolo spicchio di umanità perso nella palude riesce a scaldarmi il cuore. Gli spaghetti con il tonno, i cefali alla brace e l’immancabile capitone annaffiato dal corposo vino di Campania, poi di corsa a letto domani è un altro giorno, forse andrò a beccacce nella macchia sempreverde o ripercorrerò gli angoli di palude che oggi ho trascurato.
...La mattinata è trascorsa in fretta, se non mi sbrigo non faccio in tempo ad arrivare per pranzo. I pini marittimi che costeggiano l’Appia sfilano velocemente ai lati della automobile perdendosi in lontananza nel riflesso dello specchietto retrovisore. Apro la porta di casa e vengo investito dal mio piccolo di sette anni, Edoardo, che pretende il regalo, lo cerco affannosamente nella borsa e glielo consegno. Passandosi una mano sulla fronte, Loredana mi viene incontro: “Capoccione, non ti sei voluto perdere il rituale della cacciata natalizia, tutto bene?”.
La mia giovane bracca italiana, Tosca, si lancia sulla zuppa speciale che la padrona le ha preparato, ed io mi siedo a tavola cercando non senza difficoltà, di staccare dalle cartucce e dal carniere mio figlio perché faccia altrettanto. Mentre assaporo il tiepido conforto dei cappelletti in brodo, ritorno con il pensiero a quella vigilia di otto anni fa, ma poi sorrido e penso che per la caccia, come per la vita è sempre domani.