Il bacio del Beccaccino

Ogni volta che mi appresto a scrivere il reportage della giornata di caccia, mi sento come un amante annoiato. Il problema è cominciare, poi, man mano che le cose procedono mi piace, e il difficile diventa fermarsi.
Una parola tira l’altra, il ricordo si fa sempre più nitido, le azioni si susseguono e quando ho concluso, sfinito ma soddisfatto, mi accendo un’ideale sigaretta.
Mentre sto ordinando i fatti e le emozioni, una soffice piuma screziata si posa dolcemente vicino alla mia penna, alzo gli occhi e vedo, sull’angolo opposto della scrivania, un beccaccino che mi guarda. La presenza amica non mi distoglie dal diario.
22 Novembre 1991, tempo perturbato, la piana è completamente sott’acqua. Alla fine di Ottobre violenti temporali hanno portato lo scompiglio nella provincia di Latina. La maggior parte dei bellissimi pini marittimi che costeggiano la Fettuccia da Cisterna a Terracina sono stati abbattuti dalla furia del vento. Rocco, l’amico contadino, mi ha detto che conosceva bene quei tre poveri disgraziati finiti con la macchina nel canale. Inghiottiti dalla corrente limacciosa, li hanno trovati diverse miglia al largo del Circeo.
Sarà cinismo, ma la furia della natura mi affascina, perché mi riporta alla dimensione primordiale di uomo, con tutte le ataviche paure e insicurezze che le comodità del progresso ci hanno tolto, forse impoverendoci un po’. Il fortunale ci ricorda che l’ingegnere meticoloso può progettare un ponte, affrancandolo contro la più terribile delle catastrofi conosciuta, ma ci sarà sempre quella sconosciuta, più forte e più cattiva. Tale almeno la definiremmo per il male che ci fa. Questo agitarsi di emozioni, il non riconoscersi nella paura comune ma ricercare le difficoltà che la natura ci oppone come la stanchezza, la sete e la fame è tipico di “Noi” cacciatori. Ma chi siamo? Probabilmente quegli uomini/bambini, che per un giorno svestono i panni lindi e rispettabili che il lavoro impone, per indossare il gilet, senza la paura che la mamma ci strilli per averlo sporcato. Mistici, ci accomuniamo senza riserve tra ricchi e poveri. Bestemmiando il Creatore, sacrifichiamo alla nostra presunzione di onnipotenza la selvaggina, ma contemporaneamente ne condividiamo il destino.
Il cacciatore è sano e libero, belle parole, in cui si riassume l’essenza del nostro credo.
Sono ben lungi dall’immaginare che proprio oggi, lo specchio della mia identità mi verrà posto davanti con tutta la sua crudele realtà mentre sto percorrendo il bordo di uno dei canali non cementificati della piana. L’acqua uscita dal lago ha reso il paesaggio simile ad un enorme chiaro. Mi sono fatto lasciare da Franco sul l’argine della vecchia idrovora e contro il suo parere sono sceso nella Goffa. Affidandomi all’esperienza ed alla memoria metto un passo ed un pensiero dietro l’altro, sulla carrareccia che costeggia il canale, un movimento falso e finisco dentro. Ercole mi precede, perso in tanta acqua è alla ricerca di una zona emersa su cui cercare una possibile preda. Il cielo è sempre più scuro, sono le nove del mattino ma sembra notte. Alle mie spalle sento tuonare, mi volto e vedo un ammasso di nere nuvole minacciose, ancora più basse delle altre, entrare da mare sopra Terracina e scaricare pioggia e lampi sul porto. Confido che il vento le trascini via, verso Latina. Sono sempre più solo ma forse oggi sto cercando proprio questo. Supero il piccolo boschetto che costeggia il canale; da un orto semi asciutto, parte un beccaccino, non riesco neanche ad incannarlo. Vola via. Mi chino sul punto di levata per verificare le fatte, ma mentre sto rovistando con un bastoncino tra la vegetazione rada, con il rumore di una turbina lanciata a velocità folle, la pizzarda mi passa a pochi centimetri dall’orecchio. Come nel periodo di passo, cerca di rimettersi nell’unica pastura conosciuta della zona. Mi alzo di scatto, provo ad imbracciare ma è già dietro il bosco. Lo aggiro, per cercare un’improbabile vicina rimessa, ma quando sono dalla parte opposta mi trovo davanti un muro d’acqua che con un muggito minaccioso viene verso di me. Non perdo tempo; alla mia destra vedo uno di quei casotti di tufetti utilizzati dai contadini per la raccolta estiva dei pomodori. Prendo il cane per la collottola, spalanco la porta con un calcio e lo butto dentro seguendolo. Un boato, mi avvolge, il tetto di lamierino leggerissimo sbatte violentemente, la porta sembra reggere, ma ho lo stesso tanta paura. L’acqua mi arriva alle caviglie, decido allora di sedermi, insieme al cane su un tavolaccio situato al centro della baracca. La tromba d’aria è finalmente passata, ma la pioggia non cessa e quel che è peggio l’acqua continua a salire. Non ci sono finestre e se non faccio qualcosa finisco come il topo. Non ho altra scelta, devo uscire. Mi calco il cappello in testa, fisso bene gli stivaloni alla cinta, chiudo il moorland, benedetto sia in questi frangenti, ed esco fuori con l’acqua che mi è arrivata oltre il ginocchio. Il ritorno è una pena, il cane praticamente nuota ed io fatico il doppio, imbacuccato senza poter alzare gli occhi. Cammino di traverso guardando avanti grazie alla fessura tra il bavero ed il cappello. Finalmente arrivo all’idrovora, sono fuori ma Franco non c’è. Mi sta cercando con la macchina sull’argine che cinge da tre lati la piana. In questo momento sarà probabilmente dalla parte opposta.
È incredibile come in questi casi il più piccolo riparo sembri comodo; poco più in là vedo un gruppo di marruche che come ogni buon cacciatore di beccacce sa, hanno la particolarità di essere fitte in alto e rade a terra. Mi infilo dentro alla maniera dei cinghiali e aspetto. Grandina, il paesaggio assume degli aspetti primordiali, sono tranquillo ma soprattutto non ho più paura. Mentre sto considerando sull’aria malinconica dei luoghi, un beccaccino mi sfiora a poca distanza lanciando il suo bacio di scherno. Sono in una posizione di impotenza, raggomitolato in un cespuglio per ripararmi dal maltempo mentre lui è invece libero di librarsi in volo. Quel bacio è un inno alla libertà, a cui assisto quale contraltare goffo, benché tutti e due siamo uniti dall’identica ricerca di paesi che non esistono più. Siamo attori di una stessa commedia che a lungo andare non concederà più repliche.
Così mi domando cosa ci sto a fare in quella posizione buffa. Esco dalle marruche do’ un bel respiro e quando finalmente vedo in lontananza arrivare Franco gli vado incontro.
Ed ora che tutto è passato, tu amico beccaccino sei ancora qui a schernirmi? O cerchi compagnia.
Forse ti dovrei descrivere, ma oggi a chi interessa? Basta comprare un’enciclopedia in fascicoli dal giornalaio. A noi due no, non basta perché quello che conta non è la somma di vuote formule ornitche ma il rituale appuntamento che ogni autunno si ripropone fino a quando uno di noi due non lo rispetterà.
Buonanotte!