Memorie di un cacciatore
Dalla culla ai 90: tutta caccia
La giovinezza

di Adelio Ponce De Leon


Avevo ancora i pantaloni corti e già seguivo nelle battute di cacciatori locali.

Facevo lo schiavetto al Turin Balum (Ettore il pallonaio), uccellatore con la civetta sul paletto, alla metà del quale era infissa una gabbietta circolare con un foro centrale da richiamo per i primi catturati della giornata. Turin portava la sacca con le panie. Lo aiutavo a tirar fuori dalla panie le bacchette, smaliziato nel rotearle e nel rendere uniforme la patina di vischio. Sapevo che bisognava bagnare con la saliva le dita prima di toccare le bacchette per impedire l’appiccicamento del vischio.
Il giro venatorio era quasi sempre il medesimo come le località ove impiantare il tranello per gli uccelletti dal becco gentile. Sapevo come pulire i rami dei cespugli e come mettere in posizione le bacchette. Avevo imparato a imitare il sibilìo del pettirosso, il canto delle cincie, dei codibugnoli, dei basettini e dei saltimpali. Ero fiero della collana di fischi che mi pendeva sul petto.
Il Turin era stato punito da madre natura proprio nel senso indispensabile per udire e richiamare gli uccelli; era sordo come dieci talpe, ma era tenace. Gli ero utilissimo per segnalargli gli uccelli che si avvicinavano cantando, mostrandogli il fischietto adatto. Quando era solo, prima di richiamare un uccello doveva vederlo. Spesso chiamava cincie quando cantavano pettirossi e viceversa.
Rivedo quando si appiccicava un codibugnolo alla bacchetta; in un attimo veniva seguito da tutti gli altri che erano in gruppo con lui. Ho provato a staccarne dieci dallo stesso rametto, che si erano appiccicati in cinque minuti.
Seguivo pure un altro uccellatore, Attilio Crespi, fanatico per la caccia alle allodole con la civetta. Mi caricava sul seggiolino posteriore di una vecchia Indian 2000, un bolide rosso sgangherato, affidandomi civetta e paletto. E via, via a folle rumorosità sulle polverose strade del primo dopoguerra ancora ignare dell’asfalto.
Quando la Indian del Crespi attraverso i paesi rotolava, pareva arrivasse il terremoto. Attilio, piccolo e mingherlino, stava avvinto al manubrio dell’immensa moto e nessuno riusciva a capire come, così minuto, riuscisse a tenere l’equilibrio. Aveva il viso adunco da sparviero, l’occhio di faina e nessun ostacolo lo frenava. Le madri nei paeselli lo additavano ai bambini come “il diavolo”. Preferiva la palude del laghetto dove, tagliate le lische del falasco, il terreno paludoso diveniva un prato semiallagato ricco di semi e insetti, in cui spiccavano i cumoli delle erbe tagliate, messe in mucchio a rinsecchire. Riparato dietro un grosso covone, Attilio piantava la civetta a venti metri, tenendo le spalle al sole; allodole e pispole sembravano incantate dai suoi fischi e svolazzavano a giocare con la civetta. Sparava numerosi colpi. Il mio compito consisteva nel segnalare dove cadevano gli uccelli colpiti. Guai se non li raccoglievo tutti. Gli ero di tanto aiuto che Attilio che rinunciava alla caccia se il parentado non mi dava il permesso di andare con lui.
Per me era un giorno di festa quando convincevo papà a portarmi a uccellare nei dintorni del paese, giù fino al lago e al fiume, negli afosi pomeriggi di fine estate. Non gli davo requie, tormentandogli la pennichella che si concedeva dopo il pranzo durante la stagione calda. Merli, averle, storni erano le prede ambite, ma non un solo uccelletto capitava a tiro senza prendere la sua dose di pallini, tanto più che a quei tempi non erano vietati i minori dal becco gentile.

Nell’ampia cacciatora di papà…

… prendeva posto il calibro 28, pieghevole con il calcio solamente sagomato e svuotato per leggerezza e per attuire il rinculo. Ci appostavamo sotto un grosso fico o lungo i filari di vite e quando potevo imbracciare il 28 mi sentivo padrone del mondo. Con il fucile a carico ridotto ho fatto mirabilia al fermo e al volo, ma il tiro memorabile fu di mio fratello.
Cacciavamo merli lungo le ripe. Io seguivo mio fratello, che imbracciava il 28, con un bastone per battere i cespugli; un frullo, un colpo, un urlo. Fustachio corre e raccoglie da terra la preda morta. La guarda e grida “la beccaccia, la beccaccia”.
Seguivo mio padre alla caccia con il cane da ferma anche quando mi stancavo da scoppiare e mi divertivo meno che andando a uccellare. Ma i pochi attimi di ebrezza quando i cani incontravano, compensavano la fatica. Era una dura fatica tenere dietro a mio padre che, tra l’altro, era di una tenacia impressionante. Ricordo le paure che mi assalivano quando mi abbandonava solo sulle stridette, mentre “faceva” un bosco o una collinetta.
Un pomeriggio d’autunno, mentre lo accompagnavo al Mottarozzo, un cocuzzolo boschivo che sovrastava la palude di Bardello, Febo, bracco italiano, levò una beccaccia che si rimise sul lato nord del cocuzzolo ,senza che il papà riuscisse a separarle. In breve, quella beccaccia smaliziata frullò almeno altre tre volte, sfuggendo a due scariche della doppietta paterna e mettendosi sempre tra i noccioli o le robinie del Mottarozzo. Non avendo più la forza di seguire la battuta, fui lasciato solo alla base del bosco, su una strada verso la palude; imbruniva, l’umidità cominciava a penetrarmi negli abiti, le zanzare mi punzecchiavano senza sosta e non sapevo più dove si trovavano papà e il cane. Solo e ottenebrato di stanchezza, temevo di essere stato abbandonato sull’orlo della palude.
Tra le doti di papà a caccia predominava la cocciutaggine. L’oscurità incipiente rendeva quasi impossibile la mira, ma continuava a brancolare nel bosco imprecando alla “maledetta“ che era stata così astuta nel sottrarsi al cane e ai pallini del fucile.
Intanto il gracidare sempre più forte delle rane e dei rospi cancellava la mia pavida voce di richiamo. Ebbi paura anche della mia stessa voce. Annottava. Pieno di freddo e di paura, cominciai a piangere.
Improvvisamente una scarica, “pam… pam”, e un grosso uccello mi passò a due metri sopra la testa, sfarfallò e, superatomi, si buttò in un boschetto di pochi metri quadrati sull’orlo della palude.
Nello stesso momento si catapultò fuori dal bosco, nero di rabbia, mio padre, imprecando per l’ultima padella e contro di me, quando mi vide con le lacrime agli occhi.
“Che razza di uomo sarai se hai paura di stare solo cinque minuti su una stradetta… L’hai vista? Veniva dalla tua parte”.
“Sì, è passata sulla mia testa e si è messa in quel boschetto lì, sull’ orlo del laghetto”.
“Impossibile! Non ho mai visto una beccaccia lasciare il Mottarozzo”.
“Ti dico che aveva il becco lungo”.

Quasi non ci si vedeva più e papà, incredulo, si diresse verso il boschetto. Febo, che lo precedeva, entrò nel folto e un attimo dopo la beccaccia frullò, volando verso papà nel tentativo di ritornare al Mottarozzo. Un tiro facile e finalmente la beccaccia cadde.
“La maiala” urlò mio padre. “Mi hai fatto morire, ma ti ho presa”.
Avevo dieci anni e per la prima volta toccai la beccaccia ancora calda.